(di Silvia Truzzi – Il Fatto Quotidiano) – La Gallinara, splendida isola a forma di tartaruga che sorge nel tratto di mare di fronte ad Albenga e Alassio, è stata acquistata per 10 milioni di euro da un magnate ucraino, Olexandr Boguslayev, figlio di un produttore di motori per missili. La vendita della nostra Gallinara è stata perfezionata attraverso una società collegata al paperone, guarda caso residente a Montecarlo. Aldo Cazzullo sul Corriere, che per primo ha dato la notizia, riflette sulla questione (“L’Italia è riuscita a perdere anche l’Isola che non c’è”) sottolineando che “la Costituzione italiana riconosce la proprietà privata, ma la legge ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. E quindi? Il magnate quante tasse pagherà allo Stato italiano? E saranno tollerati i gommoni nelle vicinanze delle coste? Ora lo Stato sta esaminando le carte e gli eventuali diritti di prelazione: vedremo come finirà.

Questa storia ci ha colpito non tanto per il fatto in sé (l’isola era già privata, di proprietà di alcuni imprenditori lombardi e piemontesi), ma perché dietro all’ineludibile interrogativo di fondo (come affrontare le contraddizioni del capitalismo e della globalizzazione, che si fanno sempre più violente e invasive) c’è anche una questione che riguarda la nostra identità nazionale. Un concetto svilito dai sovranisti on the beach e ugualmente ridicolizzato da un pensiero unico che ormai quasi nega la legittimità dello Stato nazione. Ma lo Stato è ancora la forma più importante di organizzazione politica e giuridica di un popolo su un territorio. Il popolo esercita su un territorio la sovranità: questo è uno Stato. Per questo è sacrosanto farsi domande e tenere alta la guardia quando porzioni di territorio (o di sovranità!) vengono cedute. Per non dire delle infrastrutture strategiche.

Demonizzare il senso di appartenenza della comunità allo Stato, poi, è un’operazione suicida. Eppure l’autosvalutazione è un tratto che ci accompagna fin dalla nascita: “I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli austriaci, sono gl’italiani. Per la ragione che gl’italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio” (I miei ricordi, Massimo D’Azeglio). Quel “poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è negli altri paesi” – così scrive Giacomo Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani – non è cresciuto. La scusa della giovane età dello Stato unitario e della conseguente fragilità delle sue strutture non vale più. Stesso discorso per il richiamo al fondamento fratricida della nostra cultura, alle faide di campanile, alle guerre civili. Dobbiamo chiederci perché fatichiamo, a differenza dei nostri vicini europei, a riconoscerci in un sentimento di appartenenza nazionale. Perché se, come è accaduto in queste settimane, il Nyt loda l’Italia per la gestione del virus, la notizia fa meno scalpore di critiche e censure? C’è un compiacimento infantile nel sottolineare le nostre supposte mancanze come popolo, e un provincialismo non più scusabile nel guardare sempre altrove in cerca di esempi virtuosi da emulare. Gli Usa grande faro della civilità? Basta pensare che è un Paese dove il diritto alla salute è garantito solo a chi può pagare e che il principio di solidarietà che informa tutta la nostra Costituzione (almeno sulla carta) è un miraggio. Perché ci piace tanto screditare l’Italietta? Diceva Francesco Cossiga (chi ci tocca citare!) che “italiani sono sempre gli altri”, per sottolineare il vizietto dell’autodenigrazione che nega l’identità nazionale. Guai se dovessimo accorgerci troppo tardi che – ed è già accaduto a due passi da noi, in Grecia – l’Italia è di qualcun altro.