(di Daniela Ranieri – Il Fatto Quotidiano) – “Espropriare, dal latino medievale expropriare, derivato di proprius, ‘proprio’, col prefisso ex-: privare qualcuno di una sua proprietà, per un fine di pubblica utilità o in seguito a sentenza esecutiva”.

Non ci sono dubbi: secondo la Treccani per poterti dire espropriato di un bene occorre che quel bene sia tuo; il che è logico: perché qualcosa smetta di essere “proprio”, deve prima essere “proprio”.

Da ciò discende che Luciano Benetton, “intercettato” nei suoi sfoghi ieri da Repubblica, o ignora l’etimologia del termine “esproprio”, o considera “proprie” le autostrade, un bene che lo Stato invece aveva dato nel 2003 in concessione ad Aspi (posseduta per l’88,06% da Atlantia, questa sì proprietà dei Benetton per il 30%, al contrario di quanto poteva apparire nei giorni successivi al crollo del nostro ponte di Genova).

La confusione terminologica di Luciano Benetton è testimoniata da altri inciampi: “Ci stanno trattando – sbotta nel pomeriggio con chi lo incontra – peggio di una cameriera”.

Al capitalista non è venuto in mente un altro paragone per significarci l’umiliazione che avverte (come un cane? Come un ladro? Come un criminale?), segno che gli esseri umani che nel suo mondo sono trattati peggio, con più disprezzo e meno considerazione, sono le cameriere.

Al che però, visto che insiste (due righe sotto si apprende cameriera essere sinonimo di “domestica”), viene da pensare che se una villa affidata a una cameriera – che riceve dai padroni lauti compensi per manutenere l’edificio e le sue adiacenze affinché non crolli – un giorno crolla causando 43 morti, il minimo che si possa fare è licenziare la cameriera.

Al di là del linguaggio, che come si sa è tutto, la Weltanschauung di Luciano emerge poco dopo, quando quasi quasi ci convince che il crollo emotivo della famiglia “devastata” sia stato più grave del crollo fisico del ponte, il che peraltro non ha impedito alla famiglia, il giorno dopo la tragedia, di tenere nella villa di Cortina il consueto party-grigliata di ferragosto senza particolari crisi di coscienza.

“A noi, che per mezzo secolo abbiamo contribuito al boom economico dell’Italia, intimano di cedere i nostri beni entro una settimana. Non possiamo accettare di essere trattati come ladri, dopo aver distribuito tanta ricchezza e tanta cultura, non solo economica”.

A proposito di ladri e di espropri: ci sovviene un fatto di storia, purtroppo omesso dalle struggenti cronache attuali, che riguarda i fratelli trevigiani dei maglioncini (e di tante altre cose, tutte a 9 zeri).

Maglioncini di lana pregiatissima: nel 1991 la multinazionale famigliare Benetton controlla 900 mila ettari in Patagonia, tra Argentina e Cile, per l’allevamento di pecore da lana.

La popolazione indigena dei Mapuche denuncia lo sfruttamento di manodopera infantile e l’espropriazione (questa sì) illegittima dei territori, appartenenti per millenni ai Mapuche e poi di colpo a Luciano, il fratello deputato al ramo maglioni.

Negli anni 2000, i nuovi padroni hanno acconsentito a ricevere dei delegati Mapuche, a cui hanno concesso un po’ di terra in cambio di lavoro. È evidente che i Benetton volevano distribuire ricchezza e tanta cultura agli indigeni (posti di lavoro gratis, col privilegio di contribuire alla vestizione di milioni di giovani metropolitani!), solo che i Mapuche, ingrati, non hanno capito la filantropia sottesa all’operazione e hanno continuato a denunciare lo sfruttamento di terra e manodopera al mondo occidentale, troppo impegnato a decantare le lodi delle geniali campagne pubblicitarie scioccanti/provocatorie affidate al fotografo Oliviero Toscani.

Riassumiamo: quel bene pubblico che dal 2003 era in concessione è bene proprio brandizzato Benetton; la revoca della concessione è un esproprio proletario-populista; la mancata genuflessione alla casata è una “demolizione del nome e del marchio Benetton”.

Ma niente niente, dopo la tragedia, volevano un cavalierato?

Non è questo: Luciano, patrimonio personale stimato da Forbes in 2,8 miliardi di dollari, è devastato non solo per il calo di fatturato, ma anche per la fine di un’epoca: “Trent’anni fa – confida – all’aeroporto di Los Angeles un poliziotto mi riconobbe dal passaporto e mi chiese a bruciapelo quanti negozi avessi aperto quel giorno. A Montreal una signorina del check-in non voleva credere di trovarsi davanti Gilberto. Nel 2000 la direttrice del New Yorker ci invitò a pranzo nella sua casa di Manhattan per sapere cosa pensasse del mondo la famiglia Benetton, icona dello stile e del successo italiano. All’estero ci rispettano e non capiscono perché un grande gruppo privato… viene fatto a pezzi da uno Stato che ha sempre sostenuto”. Ne siamo distrutti.

“L’estero”, per questa gente, è Los Angeles, Montreal, gli aeroporti, le case di Manhattan.

Per curiosità, chiederemmo un parere anche in Patagonia.