(Giuseppe Di Maio) – Non è ancora sedato il movimento iconoclasta che ha buttato giù le statue. I sentimenti contro l’autorità, dopo il contenimento forzato da coronavirus, spesso sono sfociati in aperta volenza ai simboli della nostra civiltà. In Italia, l’incursione nei giardini pubblici di porta Venezia contro la statua di Montanelli, ha avuto uno strascico di polemiche sulla probità del noto giornalista, sul nostro passato coloniale, sulla condizione della donna. Il suo allievo, Marco Travaglio, tirato in causa dalla sua difesa, ha illustrato il periodo africano del maestro, concludendo che il rapporto con Destà, moglie africana di Montanelli, era tutt’altro che un segno di razzismo.

L’affanno diuturno della lotta di classe produce nei comportamenti umani numerosi meccanismi includenti ed escludenti. Il lavoro, l’economia e la vita civile e religiosa ne sono contagiati. Ciò che si dice razzismo è l’alterazione dei sistemi della competizione per mezzo della guerra al diverso, con la discriminazione dell’estraneo al proprio gruppo sociale ed etnico. Attraverso il razzismo, la vittoria sociale del singolo passa innanzitutto per la vittoria del proprio gruppo d’appartenenza. Le unioni affettive e sessuali seguono un mercato del coniugio rigidamente regolato dal valore preconcetto attribuito ad ogni nazionalità, regionalità, e ceto sociale.

Da ragazzo a Bruxelles fui invitato a casa di amici. Il padrone di casa conviveva con una boliviana eccezionalmente carina. E allora, oltre a giudicare i miei ospiti molto illuminati, se paragonati col resto della popolazione, ebbi l’impressione di far parte di un impero coloniale belga che rimescolava le carte sul mercato naturale delle amicizie e degli amori, favorito dalla posizione del proprio gruppo sociale ed etnico. Era un’impressione giusta. In seguito ho constatato che il coniugio è guidato dall’attribuzione rigida di una scala di valori secondo la bellezza fisica, la posizione sociale, il luogo di nascita, l’età e la contingenza temporale.

E quella di Montanelli in Africa era una contingenza del tutto favorevole a lui. Un bianco e un’abissina, un vincitore e una sottomessa, un non bello e una bellissima, un giovane e una giovanissima erano degli elementi che mescolati stabilivano un’unione, diciamo paritetica, anche se transitoria. Ma era del tutto razzista, caro Travaglio. Era cioè frutto di quell’alterazione dei valori che permetteva un’unione innaturale. L’affetto che Montanelli provava nei confronti di Destà, non è sintomo di liberalità antirazzista, bensì del contrario. Indro non l’avrebbe mai portata in Italia, né l’avrebbe sposata e fatto dei figli legittimi con lei. Non l’avrebbe difesa contro il pensiero comune nazionale, né preferita alle signore nostrane dalla pelle rosea.

L’affetto che proviamo per il nostro cane non lo dobbiamo scambiare per liberalità; la dignità che gli attribuiamo è una cosa diversa dall’amore verso un essere umano. E il fatto che la pelle e la vicinanza di Destà non facessero schifo a Montanelli, non è la migliore testimonianza della sua pari dignità. L’amore, o la nostra scelta volontaria di concepire dei figli con una compagna, sono invece segni inequivocabili di ammissione della sua dignità sociale e civile. Ciò che concepiamo come ripugnante nei contatti con un’altra razza, o con un individuo di condizione sociale inferiore, è solo il segno della nostra paura di poterci contaminare e di scadere socialmente. Ma questo non è segno di tutto il razzismo, è solo quello dei piccoli borghesi.