(Giuseppe Di Maio) – I benefici che deriverebbero da una patente di cittadinanza, cioè dalla limitazione del diritto al voto, sono immediati: migliora l’elettorato, migliora la politica. L’esclusione di una parte di cittadini dal suffragio, costretti ad un accesso regolato da un’apposita selezione culturale, è la necessaria conclusione di un’illusione durata tutta l’età moderna. La democrazia senza “demos” genera poteri nemici del popolo, compromettendo la stessa presunzione di cittadinanza.

In Italia le leggi elettorali del 1912/18/45, cancellarono la democrazia censitaria e istituirono il suffragio universale senza distinzione di sesso. Le prime elezioni del ’46 decisero la forma di Stato ed elessero l’Assemblea Costituente. Il fervore scatenato con la pratica della democrazia portò al capolavoro della nostra Costituzione, momento ineguagliato dello spirito, che escluse per buona parte la rappresentanza politica reazionaria. Ma quale fu il popolo che votò la Repubblica, quale popolo votò i partiti della Costituente?

Allora l’Italia era un paese fortemente rurale. Nei piccoli centri la vita culturale ruotava attorno a poche figure di indiscusso prestigio. Nelle grandi città il potere della fabbrica, come centro di produzione ideale, non era ancora determinante; i centri di aggregazione cattolica la facevano da padroni. L’indicazione del voto in tutta la penisola dipendeva ancora dai grandi elettori. E’ vero, votavano le donne. Ma il voto non era l’espressione di libertà a cui siamo abituati oggi. La moglie votava come indicava il marito; il marito come indicava il padrone, il medico, il prete. Tutti insieme seguivano le correnti propulsive dello spirito costituente liberate dal fascismo e dai rigori della guerra. E, assurdamente, questi grandi elettori indicarono una Repubblica e una Regola in cui l’animo privato faticò a trovare immediata collocazione. Ai poteri forti occorse del tempo per occupare lo Stato. Ma poi questo tempo è passato, e la repubblica non è stata più giovane; il motore economico e sociale si è inceppato, e l’elettorato si è frantumato, polverizzato. Ciò che s’intende oggi per “liquidità del consenso”, è appunto questa approvazione ondivaga del cittadino che ha perduto i riferimenti della sua minorità, ma non è diventato completamente emancipato.

Difatti la frantumazione del consenso segue l’avanzata delle destre populiste, che si propongono come riferimenti di un elettorato ancora minorenne. Esse non indicano mai una totalità ideale in cui sia configurabile l’intera società, ma brandelli di contraddizioni e di svantaggi che cambiano e si smentiscono continuamente. Il più delle volte queste aggregazioni si formano attorno a preferenze non politiche, a scelte agonistiche ed esuberanze fisiche. E allora li trovi tutti insieme: colleghi di palestra, no-vax, terrapiattisti, negazionisti, e ladri di mestiere, tutti a gridare contro il governo e nessuno che sia responsabile verso la collettività.

A nessuno viene in mente che fare politica non è solo sindacare il proprio eventuale disagio, ma offrire una soluzione d’insieme in cui il proprio problema trovi un’adeguata attenuazione. La ressa di ieri nel centro di Roma e la feccia tricolore che l’ha attraversato, ci dicono che è arrivato il tempo di ricostituire la democrazia. E’ arrivato il tempo di sottrarre i voti dei minorenni alle forze della reazione, di istituire nella politica una cultura della responsabilità. E’ tempo di selezionare l’elettorato.