(di Gad Lerner – Il Fatto Quotidiano) – Se avete un minuto fate una visitina al sito frc.agency della Flash Road City Milano e vi troverete immersi nel design della più smagliante contemporaneità. Belle ragazze, i più celebri paesaggi metropolitani, offerte di recapito urgente e infine l’autoritratto: “A Milano ci sono più di 100 aziende riconducibili al servizio pony, nessuna però tranne noi investe ed ha investito in tecnologia per offrirvi questo servizio in un’APP”.

Sono gli stessi a cui la Gdf ha sequestrato 242 mila euro in contanti nascosti in una scatola da scarpe e altri 305 mila in una cassetta di sicurezza. Con la multinazionale Uber gestiscono servizi per 3 milioni di euro all’anno. È sotto questa patina d’eleganza che si cela la pratica del “regime di sopraffazione retributiva” e della “intermediazione illecita” che ha indotto il Tribunale di Milano a commissariare la filiale italiana di Uber. Retribuzioni di 3 euro a consegna anche di notte e nei festivi, sottrazione delle mance (non datele mai online!), minacce a chi protesta, blocco della app per i ribelli, forme di sorveglianza illegali.

Non è certo una sorpresa. A Milano come a Torino e nel resto d’Italia le piattaforme digitali della logistica prosperano fingendo di ignorare la giungla degli intermediari che sfruttano la manodopera più ricattabile. In altre parole, si arricchiscono grazie al lavoro povero, fingendo di ignorarlo.

Per usare le parole di un sociologo non certo sospetto di vetero-marxismo, la nostra inoperosa “società signorile di massa” – i cittadini italiani che non lavorano (52,2%) sono più di quelli che lavorano (39,9%) – affida servizi essenziali di cura, di food e di svago a una “infrastruttura paraschiavistica”. Il che, tra l’altro, spiega perché fra gli stranieri residenti nel nostro paese uno su tre versi in povertà assoluta.