Dalla Bellanova alle aziende, si chiede di mandare nei campi i percettori del Reddito. Eppure sulle piattaforme ci sono migliaia di disponibilità

(di Roberto Rotunno – Il Fatto Quotidiano) – All’app anti-caporalato Fair Labor, lanciata dalla Regione Lazio per incrociare legalmente domanda e offerta di lavoro in agricoltura, si sono iscritte solo cinque aziende. Proprio così: un numero misero nell’Italia in cui si leva il grido disperato sulla carenza di manodopera nei campi e si parla di 300 mila addetti mancanti per il Coronavirus, in cui un ampio fronte politico e imprenditoriale vuole che a raccogliere frutta e verdura vada chi prende il reddito di cittadinanza e in cui tra questa e l’idea di tornare ai voucher, sembra fuori moda il contratto nazionale in un settore con più di un terzo dei dipendenti in nero. E mentre ci si svena per trovare una soluzione alla scarsità di lavoratori, le offerte per braccianti nei siti dei centri per l’impiego sono rare. È sempre stato così ed è così anche nella crisi da Covid-19.

Il caso laziale è clamoroso: la giunta regionale ha avviato la sperimentazione di Fair Labor a luglio 2019 nella provincia di Latina per combattere l’intermediazione illecita. Le imprese l’hanno snobbata, mentre 160 lavoratori hanno dato la propria disponibilità. Ci sono poi esempi simili visto che a fronte degli allarmi si moltiplicano i portali. Promossi da Regioni, associazioni di imprese e pure dalla ministra Teresa Bellanova, che ha annunciato la nascita di un servizio nazionale. I risultati, però, sono gli stessi: vengono presi d’assalto da migliaia di aspiranti operai agricoli, mentre l’atteggiamento delle aziende è “timido”. Al punto che nessuno crederebbe alla storia della manodopera carente. Su Job in Country, piattaforma dell’associazione Coldiretti, da metà aprile sono arrivate molte centinaia di richieste di disoccupati pronti ad andare nei campi (più di sessanta candidature al giorno). Le imprese che hanno pubblicato ricerche di personale, invece, sono poco più di trenta, massimo cinque al giorno.

Convincere le aziende a tirare fuori gli annunci non appassiona la politica. Mandare in campagna chi riceve il reddito di cittadinanza, invece, è in cima all’agenda. A sostenere l’invio dei percettori del sussidio nella filiera agricola è stata proprio la ministra Bellanova. Al coro si è appena unito il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Un’opportunità per queste persone di “restituire quello che prendono”, dice lui. Anche nella sua Regione, però, gli imprenditori agricoli ignorano i centri per l’impiego. Sul sito regionale “Lavoro per te”, gli annunci per operai dei campi e affini sono solo 25. Leggendoli, non pare plausibile poterci mandare gente senza esperienza: a volte richiedono il patentino fitosanitario o almeno la capacità di condurre mezzi agricoli. Lo stesso in Veneto: con la parola chiave “agricolo” nel portale regionale ClicLavoro, vengono fuori solo 22 offerte e molte con specifiche competenze necessarie.

Da dove viene il paradosso dei lavoratori che mancano e degli annunci introvabili? Le imprese rivendicano questo atteggiamento perché, dicono, i centri per l’impiego “sono inefficienti”. Il rischio di carenza di braccia è reale, i rumeni impegnati nelle raccolte stagionali sono rimasti nel loro Paese per il lockdown. Anche i guadagni dei produttori agricoli, però, sono incerti vista la chiusura del turismo e dei ristoranti. Quindi l’obiettivo è cogliere l’occasione di questa caciara per risparmiare sul costo del lavoro. Impiegare i beneficiari del reddito di cittadinanza, al più integrando con i voucher, farebbe spendere meno rispetto al contratto nazionale ed è per questo che i sindacati sono contrari. Anche chi lavora regolarmente in campagna non diventa ricco, i salari minimi vanno dagli 870 ai 1.300 euro.

A infastidire le imprese, poi, c’è anche l’obbligo di autocertificazione per chi esce da casa: sarà più difficile impiegare lavoratori in nero. L’illegalità nel settore agricolo – non necessariamente il caporalato, è infatti a un livello spaventoso. Lo conferma l’Istat: nel 2017, su 470 mila dipendenti, addirittura 164 mila erano irregolari, il 36%. Ora si parla di regolarizzazione degli immigrati: così – ha calcolato Tito Boeri – emergerebbero 65 mila braccianti extra-comunitari. L’ipotesi è sostenuta anche da sindacati come la Flai Cgil e associazioni umanitarie. Le aziende agricole comunque insistono sui voucher e sull’impiego di sussidiati. La sanatoria toglierebbe qualche rogna alle imprese disoneste, non tutte, che in questi hanno lucrato con il lavoro nero. Ma richiederebbe un “prezzo” che finora hanno detestato: una volta regolarizzati, dovranno fare un contratto vero ai lavoratori.