(Giuseppe Di Maio) – Lovato è un caratteristico cognome veneto. Se lo troviamo nell’Agro Pontino è di certo perché la colonizzazione degli anni trenta della zona paludosa appena bonificata ebbe bisogno di manodopera proveniente da tutta Italia. È famosa ormai l’epopea del quadrato di Latina, dove gruppi di gente veneta, friulana, romagnola, erano asserragliati in mezzo a una natura infida e malarica. Sono stato per un po’ nell’Agro Pontino e conosco l’antropizzazione del luogo: la città di Latina, e le altre che formavano le “quattro città Pontine”, i Borghi, centri di irraggiamento colonizzatore, i casolari dispersi nella palude.

Antonello Lovato ha certamente avuto qualche antenato a cui sono stati regalati i dieci ettari dallo Stato fascista col vincolo di coltivarli e dissodarli. Una terra rossa, avara, quasi sterile, che ancora adesso ha bisogno di additivi: letame, calce e nitrati per rendere un po’ di frutto. Lui fa parte di una classe imprenditoriale nata dall’indigenza, spesso dalla disperazione, una classe che ha cominciato a vedere un po’ di soldi con l’arrivo dei lavoratori stranieri. L’Agro è una delle nostre pianure in cui abbondano le serre, in cui lo scarso terreno ereditato dalla bonifica ha solo funzione di supporto, di appoggio, mentre il vero terreno fertile viene da fuori coi camion, coi sacchi. Satnam Singh era uno dei dannati che lavorava in una di queste colonie penali. Qui tanti clandestini passano in attesa di un permesso di soggiorno, o di comporre un piccolo capitale che consenta loro di partire per nazioni più civili. Ma nel frattempo devono offrire al padrone il pedaggio, il pegno, la punizione di essere in uno stato di bisogno ed essere schiavi.

In certe condizioni e con una certa eredità familiare, la legge del profitto è così aspra che diventa un pericolo per la sopravvivenza, un’aggressione deliberata alla natura umana. In questo mondo appartato, disperso, che nessuno vuole vedere, che produce pomodori a 1 euro al kg, e meloni a 50 ¢ al kg, si lavora in nero. In questo inferno non ci sono garanzie: né ferie, né diritto alla malattia, ai farmaci, alle cure, né contributi per la pensione, in questo mondo la fortuna più grande è quella di essere pagati a fine giornata con una retribuzione di pochi euro l’ora. In questa colonia penale che riduce le anime a corpi, i sogni a incubi, non c’è altro rispetto se non per la capacità di generare profitto per il padrone. In questa bolgia di dannati un incidente sul lavoro è solo un calo di produzione, la fine della propria utilità, della propria funzione.

La rabbia sociale covata nel quadrato di Latina tra i carri in cui si moriva di denutrizione, di pellagra e di malaria, è diventata vendetta disumana, ha creato un angolo di inferno in cui si alleva la rivincita, spietata, inaudita. Ma così è nell’Agro Pontino, e così è dappertutto, dove la cancrena del sentimento privato distrugge ogni appartenenza al genere umano, così è in questa società che rincorre il profitto e vota ed elegge i numi tutelari del proprio vantaggio. Una società di cui ci dobbiamo augurare che venga presto la fine.