In questi diciotto mesi di governo, abbiamo assistito allo spettacolo di una destra convinta che la definizione della propria legittimità politica alla guida del Paese passi attraverso un regime speciale che la sottragga al controllo di legalità

La grottesca caricatura del garantismo

(di Carlo Bonini – repubblica.it) – Incapace di emanciparsi dal rancore politico figlio del ventennio berlusconiano e sprovvista di un orizzonte e di una cultura compiutamente riformatrici, la destra ha aggredito il già fragile e malfermo pilastro della nostra democrazia che chiamiamo giustizia con la sgangherata frenesia e incoerenza di chi si sente investito del compito di saldare i conti con la storia repubblicana recente per definirne un nuovo inizio. Un’avventura annunciata e accompagnata in questo anno e mezzo di governo dall’appropriazione e dall’uso fraudolento ed enfatico di una parola d’ordine che, storicamente, alla destra non appartiene — garantismo — e dalla necessità di dissimulare l’incompatibilità, all’interno della maggioranza, di culture politiche e di un’idea della giustizia molto diverse tra loro. Parliamo del sostanzialismo panpenalistico di FdI (come dimenticare che il primo decreto legge del governo venne speso per introdurre il reato di rave party, o il decreto Caivano), della concezione classista della giustizia di FI, del populismo giudiziario dalle radici giustizialiste della Lega.

L’effetto prodotto da questa commistione è stata un’agenda politica incoerente e ideologica di cui il ministro di giustizia, Carlo Nordio, è stato ed è, di fatto, un semplice ventriloquo. È accaduto così che Forza Italia abbia avuto campo libero nel dare corso all’ossessione del suo fondatore: la resa dei conti con le Procure della Repubblica e la definizione di un processo penale implacabile con i deboli e disarmato con i forti. E di cui gli interventi sulle intercettazioni telefoniche, la separazione delle carriere dei magistrati, la prescrizione, la cancellazione dell’abuso di ufficio, i test psicoattitudinali per i magistrati sono altrettanti corollari. Ed è accaduto che mentre si vendeva tutto questo al Paese come la realizzazione di una nuova stagione di riformismo “garantista”, di affrancamento dall’“uso politico della giustizia penale”, FdI e la Lega utilizzassero il terreno della giustizia penale per colpire l’opposizione con un grado di spregiudicatezza che non ha precedenti. Pensiamo al caso degli ascolti in carcere dell’anarchico Cospito utilizzati dal sottosegretario alla Giustizia Delmastro per calunniare parlamentari del Pd. O all’insediamento strumentale della commissione di accesso agli atti del Comune di Bari disposta dal ministro Piantedosi per colpirne il sindaco uscente e candidato alle elezioni europee Decaro e intossicare, facendola deragliare, la campagna elettorale per il suo successore.

La verità è che in questi diciotto mesi di governo, abbiamo di fatto assistito a uno svuotamento del principio di uguaglianza di fronte alla legge e allo spettacolo di una destra convinta che la costruzione e consolidamento del consenso, che la definizione della propria legittimità politica alla guida del Paese passino attraverso un regime speciale di garanzie che la sottragga al controllo di legalità o, quantomeno, che renda quel controllo privo di ogni efficacia sostanziale. Che l’uso del Trojan sia dunque legittimo nei confronti del sospettato di mafia, ma non del politico o dell’amministratore corrotto. Alla base di questo convincimento, evidentemente, c’è un’idea peculiare della politica e della democrazia. Quella in cui il voto popolare diventa il lavacro di ogni possibile responsabilità, oltre che il viatico a una condizione di immunità permanente, e il sistema di bilanciamento e controllo dei poteri — di cui la giustizia è uno dei cardini — degrada a semplice corollario del potere esecutivo. Salvo che non si adegui a farsene strumento.

Tutto questo, evidentemente, non ha nulla a che vedere con il garantismo. O con una concezione liberale della giustizia. Ne è soltanto una grottesca caricatura. Che trova oggi terreno fertile a valle di un trentennio in cui i pochi tentativi di riforma della giustizia o sono stati annichiliti nella culla o sono stati sapientemente smontati e sfigurati da successive controriforme. Nella sua declinazione “giudiziaria”, il populismo della destra capitalizza e trasforma in agenda politica l’umore di quella parte di Paese che nel principio di legalità e uguaglianza di fronte alla legge vede un ostacolo, un’imposizione e non uno strumento di coesione che definisce la qualità di una democrazia. Non è un caso che è nella aggressione e riscrittura degli istituti che definiscono il sistema giudiziario di un Paese e le norme del suo diritto sostanziale (penale, civile e amministrativo), nello svuotamento dei poteri di controllo e bilanciamento del potere esecutivo che affondino le fondamenta di ogni progetto autocratico. Ignorarlo, in questo delicatissimo passaggio della nostra storia repubblicana, equivale a rassegnarsi a un futuro da cittadini meno uguali e meno liberi.