La foto a Pescara con i manager di Stato e la maglietta di FdI

(di Michele Ainis – repubblica.it) – Certo, gli episodi di censura (da ultimo Scurati). E le querele per Saviano e Canfora. E l’occupazione militare della Rai. E la pappatoia sulle partecipate pubbliche. E i boiardi di Stato in riga su un palco con la t-shirt del partito di governo. E il direttore di un giornale d’opposizione (Fittipaldi) convocato in Antimafia. E i nuovi reati contro l’ordine pubblico (dai rave al blocco stradale). E la galera per i cronisti che diffamano. E le manganellate agli studenti. E le parole non dette sul fascismo. E una morsa che stringe al collo i dissenzienti, i disobbedienti, i dissidenti.

C’è tutto questo, certo, nel clima plumbeo che s’addensa alle nostre latitudini. E contro quest’andazzo si levano le voci di protesta. Ma la deriva illiberale della democrazia italiana si consuma al tempo stesso mediante una catena d’episodi per lo più ignorati dall’opinione pubblica. Giacché hanno a che fare con le regole, con le procedure — altrettanti oggetti misteriosi, per chi non abbia un paio di lauree in giurisprudenza nelle tasche. Eppure la sostanza della democrazia viene innervata dalla sua forma specifica. La democrazia, diceva Kelsen, non è che una modalità procedurale. Se non la rispetti, potrai anche dichiararti antifascista, ma in realtà ti riveli antidemocratico. Ed è antidemocratica un’azione di governo trasmessa attraverso la continua violazione o distorsione delle regole vigenti.

L’ultimo misfatto è tra i più gravi. Succede nella commissione Affari costituzionali della Camera, dove si sta cucinando la legge sull’autonomia differenziata.

Il 24 aprile la maggioranza va sotto su un emendamento firmato dai 5 Stelle; due giorni dopo la votazione viene ripetuta, la maggioranza serra i ranghi, l’emendamento già approvato ora è bocciato. Come se l’arbitro ti facesse ripetere un calcio di rigore perché la palla è andata fuori. Ma non si può: lo vieta l’istituto della preclusione. Disciplinato dai regolamenti parlamentari, ma in ultimo dettato dal buon senso. Altrimenti ogni legge diverrebbe una tela di Penelope, fatta e disfatta finché l’eroe non torni vincitore.

Non è l’unico caso. Sempre in aprile — il mese più crudele, diceva Thomas Eliot — il Consiglio dei ministri ha licenziato il Def. Significa «Documento di economia e finanza», e contiene le previsioni economiche nonché il piano d’azione del governo per l’anno in corso e per il triennio successivo. Per la prima volta, però, manca il quadro programmatico, ossia i numeri utili a valutare l’impatto delle misure fin qui varate dall’esecutivo. Non sanno calcolarlo? Non vogliono farcelo sapere? Di certo si sono messi sotto i tacchi una legge (n. 39 del 2011) che viceversa imporrebbe questo adempimento. D’altronde sull’economia non si va mai per il sottile. Nell’ottobre scorso la maggioranza ha rispedito in commissione (per affossarla) la proposta di legge sul salario minimo, mentre ormai ne stava discutendo l’aula di Montecitorio; invertendo così la procedura regolare. Negli stessi giorni un vertice di maggioranza si era concluso con un diktat per i parlamentari: nessun emendamento alla legge di bilancio. Giacché il Parlamento può parlare, lo dice pure la parola. Tuttavia a decidere è il governo, con buona pace delle regole costituzionali.

E il governo sceglie, nomina, promuove. Lasciando all’opposizione soltanto qualche briciola, benché le prassi osservate nel passato fossero ben più generose. 7 posti su 10 al Csm. 9 su 12 nei Consigli di presidenza delle magistrature speciali, dopo uno stallo durato vari mesi (tanto che alla fine il Pd non ha partecipato al voto). E il progetto di un en plein a dicembre, quando il Parlamento dovrà eleggere quattro nuovi membri alla Consulta. Anche se in realtà un giudice costituzionale (Silvana Sciarra) ha già lasciato libero il suo posto l’anno scorso. E anche se una legge costituzionale (n. 2 del 1967) prescrive che ogni giudice venga rimpiazzato «entro un mese dalla vacanza».

Le regole del gioco subiscono perciò un’azione corrosiva — lenta, inesorabile, letale. Che avviene sottotraccia, ma scava nel profondo. Non deriva tuttavia da un’esplicita avversione verso le procedure democratiche, dal desiderio di cambiarle. No, il sentimento da cui muove è l’indifferenza, anzi: la strafottenza.