QUESTIONE DI ETÀ – Chi vive in casa nostra? Erano bambini dolci, adolescenti quieti, ora sono adulti ribelli che raccontano balle

(DI SELVAGGIA LUCARELLI – ilfattoquotidiano.it) – Mentre si discute dei diritti delle donne e del pericoloso attacco a una conquista fondamentale – l’autodeterminazione femminile e la possibilità di scegliere cosa fare del proprio corpo – io mi sento troppo coinvolta da questioni personali per partecipare con onesto coinvolgimento al dibattito. Sono in quel momento della vita in cui mi trovo ad accettare l’idea che l’autodeterminazione dei figli passi attraverso scelte impreviste e decisioni che appaiono catastrofiche. E ad accettare non tanto che i figli, quando crescono, non ci somiglino (quello francamente lo speravo perfino), ma che non somiglino neppure a ciò che erano qualche anno prima. Appartengo infatti alla disgraziata categoria di madri ingannate da infanzie e adolescenze di figli tutto sommato quiete, che lasciavano presagire un percorso in discesa. E facevano pure credere di aver avuto un discreto culo, nella lotteria della maternità.

Insomma, non appartenevo alla categoria di madri sfigate che al primo vagito avevano intravisto l’abisso, intuito lo strazio della fatica, iniziato la lotta sfibrante con l’indole ribelle. Quelle si allenano fin da subito alla salita, hanno polmoni elastici e il respiro lungo. No, sono tra quei genitori colti di sorpresa, quelli che hanno passeggiato in discesa per anni, per poi trovarsi davanti una salita inattesa senza muscoli allenati e col fiato corto. Mi trovo, più o meno, in quella fase della genitorialità in cui la possibilità di “determinare” qualcosa è ridotta al decidere se rispondere o no al whatsapp del figlio che dalla sua camera da letto chiede se è pronta la cena. In cui sai che una qualunque discussione su un calzino abbandonato per terra potrà scatenare recriminazioni sui gusti dell’omogeneizzato che gli imponevi da piccolo. In cui un consiglio su come impilare i fumetti nella libreria sarà considerato un grave affronto alla sua autodeterminazione. In cui un “no” sarà il chiaro indizio del regime da califfato islamico che vige in famiglia. In cui la bugia del figlio è ormai una specie di spasmo incontrollato, la dice pure quando non serve, quando non è finalizzata a nascondere qualcosa. È puro esercizio di stile. “Com’era lo yogurt ai lamponi?”. “Non l’ho mangiato”. “Ma se c’è il barattolo vuoto sulla tua scrivania”. “Ah sì, buono”. In cui la maggiore età del figlio regala l’arroganza anagrafica a lui e il balbettio inerme al genitore che realizza una realtà precisa e devastante: ormai la sua vita sono fatti suoi. E mentre sono qui che mi metto in discussione e, come tutte le madri i cui problemi con i figli sono iniziati dopo il 2020, attribuisco ogni colpa al più grande fattore deresponsabilizzante di oneri genitoriali mai inventato, ovvero il Covid, ripenso alla lettera di una madre ricevuta tempo fa. Che non somiglia alla mia vicenda, ma che riporto perché nella sua spietatezza c’è la resa docile e allo stesso tempo feroce di tutti i genitori che hanno fatto tutto ciò che potevano, con la sensazione che nulla sia stato davvero determinante: “Ho ascoltato il monologo di Chiara Francini sulla maternità mancata, io invece lo faccio tutti i giorni da sola sulla maternità tradita, sul motivo per il quale si crescono i figli con amore e dedizione e loro a un certo punto della vita, alle porte della maggiore età, si rivoltano contro i genitori al punto che nasce prepotente un desiderio di aborto ritardato. E si prova un po’ di vergogna. Ma a essere onesta neanche tanta. Quando immagino di mettermi nei panni di quella donna che figli non ne ha avuti e pensa di essersi persa un’occasione di crescita spirituale, io vorrei dirle che non sa che guadagno è stato per la sua salute. E qualora ci fosse un’altra vita, lei avrebbe un lasciapassare per il Paradiso che a me, per i pensieri che partorisco tutti i giorni, sarà sicuramente negato. Ora, io un articolo sulle madri che collezionano fallimenti educativi tutti i giorni, non lo posso scrivere, ma se potessi darei voce al senso di frustrazione che si alimenta quotidianamente quando guardo mio figlio vivere. So che dico cose crudeli.

Ma a che serve mentire se non a mortificare l’intelligenza nostra e di chi ci ascolta? Infatti, io per non mentire taccio. Mentre i colleghi insegnanti mi mostrano le pagelle dei loro figli e mi raccontano quanto sono seri, impegnati e si riempiono di orgoglio per il loro operato, io penso che evidentemente col mio qualcosa è andato storto. Eppure è cresciuto a pane e Woody Allen, ho cercato di fornirgli strumenti e stimoli che lo aiutassero a trovare il suo talento. Giorgio è mio figlio, io sono inadeguata e lui è certamente infelice. Un ragazzo che abbandona la scuola, lo sport, che rifiuta qualunque forma di crescita culturale e che volge il suo sguardo solo verso il basso, ci costringe a indagare su tutto, comprese eventuali patologie o tossicodipendenze, ma davvero non abbiamo trovato altro che questo: un fallimento educativo.

E cerco intorno a me – tra amici, colleghi, sconosciuti – qualcuno con cui io possa condividere questo malessere, ma la gente di solito nasconde i propri fallimenti e lo capisco pure. È un’attività straziante indagare a fondo per potere aiutare un figlio, perché il minuto dopo che smetti di odiarlo lo ami nuovamente. Il tutto mentre non ha voglia di essere supportato perché è diverso da noi e ci dobbiamo rassegnare, così dice. Non mi interessa studiare, non mi interessa lavorare, voglio i vostri soldi, dice. Parole vuote dei nostri contenuti, perlomeno quei contenuti che credevamo di avere e di aver trasmesso.

Mi ritrovo così senza progetti a lungo termine e godo per i progetti dei figli degli altri. Io so che non pagherò la Bocconi per mio figlio, ma acquisterò a rate una Mini Cooper per me, da qualche parte bisognerà pur ricominciare. Se devo smettere di sognare per lui, non è detto che io debba smettere di sognare per me. Che poi se cambia idea e vuole andare alla Bocconi io la Mini Cooper la vendo anche, faccio sempre in tempo”.