La sociologa: “Il bonus mamme è selettivo, va solo a chi ha due figli o più. Ma prima di farne due bisogna farne uno: il sostegno servirebbe prima”

(di Giuseppe Colombo – – ROMA – «Il governo ha deciso che la povertà è sparita o è fatta da imbroglioni. Basta leggere la manovra: si dà di più a chi ha di più mentre bisognava dare di più a chi ha di meno». A bocciare la direzione di marcia della legge di bilancio è la sociologa Chiara Saraceno. «Anche l’abbassamento dell’Irpef – aggiunge – avvantaggia i redditi più alti».
Il governo rivendica il sostegno al ceto medio dopo l’aiuto ai redditi bassi. Perché sbaglia?
«Sbaglia perché il taglio dell’Irpef per il ceto medio è una misura simbolica che aiuta chi non ne ha bisogno. Ha una progressività al contrario: non aiuta i redditi modesti. Bisognava agire diversamente».
Come?
«Sarebbe stato più opportuno indicizzare le aliquote, facendo in modo che tengano conto dell’inflazione, invece di continuare a pasticciarle».
È una manovra per i ricchi?
«È una manovra che dimentica i poveri».
Perché?
«Perché si è alzato il valore della casa per l’esclusione dal calcolo dell’Isee e non l’affitto? Così si penalizzano i più poveri, sono loro a vivere in affitto».
Tra le misure contro la povertà c’è la carta “Dedicata a te” per l’acquisto dei beni alimentari di prima necessità. Basta?
«Non si capisce perché viene escluso chi prende l’Adi (assegno di inclusione, ndr) e ha quindi un reddito inferiore a diecimila euro. Chi riceve l’Adi mangia di meno rispetto a chi ha 15mila euro? (il tetto della carta, ndr). ll governo ha creato due categorie di poveri alimentari. La carta deve andare a chi ha l’Adi o altrimenti si alzi il valore dell’assegno».
A proposito di Adi. La manovra dimezza la prima mensilità del rinnovo. Come legge questa misura?
«Senza senso. Mi colpisce questo disprezzo per i poveri, forse il governo pensa che nascondano qualcosa sotto al materasso».
Cosa serve allora?
«Prima di tutto affrontare le urgenze. L’assenza di una casa sta diventando una delle cause principali della povertà. Bisognerebbe rifinanziare subito il fondo per gli affitti,».
Il governo punta sulla detassazione dei rinnovi contrattuali e dei premi di produttività per alzare i salari. È la spinta che serve?
«Chi ha salari bassissimi, chi ha un contratto da cinque euro ha i premi di produzione? Non mi pare che possano beneficiare degli interventi sui rinnovi contrattuali o sui premi. E le domestiche? Vengono sempre escluse da qualsiasi aiuto, sembrano lavoratrici senza diritti».
Nel pacchetto per la famiglia c’è l’aumento del bonus mamme. È sufficiente per aiutare le lavoratrici madri?
«No. Tra l’altro è un bonus selettivo, va solo a chi ha due figli o più. Ma prima di farne due, bisogna farne uno: il sostegno dovrebbe arrivare prima».
Manovra, la stangata sui pensionati: tasse più alte sui più poveri
Rivalutazioni mangiate dalle aliquote. Chi riceve 900 euro al mese ne perde 800 l’anno
(di Roberto Rotunno – ilfattoquotidiano.it) – Oltre a chi sperava di anticipare il pensionamento, confidando nella parola data dal centrodestra, a essere tradite dal governo Meloni sono anche le persone che in pensione ci sono già andate. Perché stanno per subire un nuovo, implicito aumento di tasse che eroderà il loro potere d’acquisto. Anziani che vivono con assegni bassi, destinatari di promesse elettorali e retorica strappalacrime: sono loro i più penalizzati dalle quattro manovre approvate dal governo Meloni. Pure dall’ultima, passata ieri in via definitiva alla Camera, la quale li colpisce ancora con un incremento di imposte invisibile solo per modo di dire, perché gli interessati se ne accorgeranno eccome. A spanne, per una pensione da appena 900 euro netti al mese, la perdita dovuta alle quattro manovre sarà di circa 800 euro annui, secondo i calcoli della Cgil.
Le riforme fiscali del governo Meloni, anche il nuovo taglio Irpef in vigore da domani, provocano una perdita di potere d’acquisto per i pensionati con assegni sotto i 40 mila euro, soprattutto per chi prende poco più di 10 mila euro lordi annui. Il governo non ha voluto tenere in considerazione l’effetto dell’inflazione su questi redditi. Non è un tecnicismo, ma una scelta politica. Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si erano impegnati nel 2022 a innalzare le minime, ma poi hanno innalzato solo la pressione fiscale effettiva sulle pensioni basse. In modo indiretto, subdolo, ma non per questo indolore.
Si chiama “drenaggio fiscale”: metafora che descrive come i soldi arrivano attraversando un terreno ruvido e appiccicoso, che ne trattiene una parte. Quando c’è inflazione, i redditi da lavoro e pensione tendono a salire, ma subiscono anche un aumento di imposte, che sono progressive. Succede soprattutto per chi salta lo scaglione: per esempio chi, dopo l’aumento, supera i 28 mila euro e vede aumentare l’aliquota per i redditi sopra quella soglia (al 33%, mentre al di sotto è al 23%). Dato il carovita, il reddito lordo non è cresciuto: si è solo adeguato ai prezzi, ma in termini reali è rimasto uguale. L’imposta sul nuovo reddito – salito solo in valore assoluto – è diventata più alta di prima e questo ha fatto perdere potere d’acquisto. Questo è chiaro proprio sui pensionati: le pensioni fino a quattro volte il minimo vengono adeguate automaticamente all’inflazione. Come si vede nell’infografica in alto nell’altra pagina, una pensione lorda di 800 euro nel 2021 è diventata di 936 euro nel 2025; le aliquote Irpef e le detrazioni, però, non sono state anch’esse agganciate all’inflazione. Quindi il fisco ha “drenato” 783 euro annui di imposte a quella bassa pensione, cifra che non sarebbe stata prelevata se – come detto – aliquote e detrazioni fossero state indicizzate.
Il lordo tiene il passo, il netto no. Succede a lavoratori e pensionati, ma per questi ultimi la stangata è più evidente. Lo spiegano due economisti di area Cgil: Nadia Garbellini, docente di Economia Politica all’Università di Modena e Reggio Emilia, e Roberto Lampa, professore di Storia Economica e Storia del Pensiero Economico all’Università di Macerata. “È vero – affermano – che le pensioni sono rivalutate automaticamente in base all’inflazione, utilizzando l’indice Foi al netto dei tabacchi. Ma la rivalutazione è solo parziale. Inoltre, l’indicizzazione opera sul lordo della pensione, mentre il drenaggio fiscale agisce sul netto: scaglioni Irpef, detrazioni e no-tax area restano fermi in termini nominali. Ne deriva un aumento dell’imposta effettiva a parità di potere d’acquisto”.
Il governo Meloni poteva evitarlo ma non lo ha fatto. Ha cambiato due volte l’Irpef: nel 2024 e con l’ultima manovra per il 2026. Pur considerando i due interventi, dice l’Ufficio parlamentare di bilancio, i pensionati sotto i 40 mila euro pagheranno aliquote medie più alte rispetto a quelle che avrebbero pagato se il sistema fosse stato adeguato all’inflazione. Paradosso: a beneficiare delle riforme saranno i pensionati benestanti, compresi i più ricchi. “Per i pensionati e i lavoratori autonomi – dice l’Upb – gli effetti delle riforme sono di entità più contenuta e prevalentemente concentrati sulle fasce di reddito medio-alte e alte”. Sempre l’Upb ha fatto notare che, tra i lavoratori dipendenti, i più penalizzati dal drenaggio fiscale saranno quelli tra 32 mila e 45 mila euro, il ceto medio che pure doveva essere sostenuto è invece è stato beffato. Sotto i 32 mila euro, ci sono i vantaggi del taglio al cuneo fiscale introdotto negli anni scorsi. I pensionati non ne beneficiano e per loro la riforma fiscale è ben più iniqua.
“Dopo il taglio di 7 miliardi di euro del biennio 2023/2024 dovuto al non riconoscimento della piena rivalutazione – dice Lorenzo Mazzoli, segretario nazionale Spi Cgil – con la legge di Bilancio 2026 il governo non ha restituito il fiscal drag subìto dai redditi da pensione, né l’ha neutralizzato per il futuro”. “L’esecutivo – conclude il sindacalista – vede nel capitolo previdenza solo un bancomat per fare cassa mentre pensionati e pensionate fanno sempre più fatica ad arrivare a fine mese”.
Ma il drenaggio non disinnescato è l’ultima beffa del governo Meloni per i pensionati. Si somma a quelle destinate a chi in pensione sperava di andarci, date le promesse soprattutto della Lega di mandare tutti a riposo dopo 41 anni di lavoro. La realtà è stata diversa. La legge Fornero è stata aggravata: aumentato il requisito per la pensione contributiva a 64 anni, tagliate le future pensioni anticipate di alcune categorie del pubblico impiego, abolite Quota 103 e Opzione Donna. Era stata prevista la possibilità di pensionamento a 64 anni mischiando contributi Inps e fondi complementari; la manovra 2026 ha abolito questa opzione e tagliato i fondi per i lavori usuranti. Dal 2027, l’età pensionabile salirà di un mese, nel 2028 di altri due. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha detto che, se possibile, si tenterà di evitarlo. Un’altra promessa. Più timida, dati i precedenti.
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Se la stampa italiana non si trova nelle posizioni di vertice nel ranking mondiale, questo articolo ne fornisce ampia dimostrazione.
L’accusa fatta al governo è fondata sul piano tecnico: il drenaggio fiscale esiste, colpisce i redditi fissi e non esistono meccanismi che indicizzino all’inflazione gli scaglioni irpef, le detrazioni e la no tax area.
I pensionati non beneficiano del taglio del cuneo fiscale, ma subiscono comunque il drenaggio fiscale.
Poi l’articolo comincia a scendere i gironi infernali della disinformazione
Parlare di “stangata sulle pensioni più basse” è un’esagerazione; i pensionati più poveri non vedono crollare il netto, lo vedono crescere meno dell’inflazione; si tratta si di una perdita ma non del collasso.
Il dato degli 800€/anno è plausibile ma si tratta di un calcolo sindacale che non tiene conto dell’inflazione cumulata, della struttura familiare, delle detrazioni.
L’articolo lo presenta come un dato universale, quando in realtà si tratta di una media stimata, per giunta.
Arriviamo al lago di Cocito.
Il tradimento delle promesse fatte in campagna elettorale.
È vero che il centrodestra aveva promesso pensioni minime più alte e superamento della Fornero.
È anche vero che nessun governo recente ha davvero sterilizzato il fiscal drag in modo strutturale; il contesto post-inflazione e i vincoli di bilancio sono peggiorati.
Infine il demonio.
Il problema non è il governo X, l’articolo individua un colpevole politico attuale, ma la crisi delle pensioni italiane è sistemica in quanto il rapporto attivi/pensionati in deterioramento strutturale, la natalità è sotto 1,3 da decenni.
I salari sono stagnanti da 30 anni almeno, con contributi bassi c’è meno gettito per finanziare il sistema.
Poi c’è la precarizzazione del mercato del lavoro che aggrava il tutto.
Il drenaggio fiscale è l’effetto di tutto ciò, non la causa.
Il fiscal drag aggrava la condizione dei pensionati, non la crea.
Con pochi giovani, malpagati ed intermittenti il sistema può reggere solo se l’assegno medio scende, l’età pensionabile sale, la rivalutazione è parziale; il resto è l’articolo.
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