Fallisce la narrazione elettorale che rimuoveva i limiti. Governare, però, è un esercizio di compatibilità

(Sebastiano Messina – lespresso.it) – La pasticciata approvazione della legge di Bilancio insegna che prima o poi arriva il momento, nella parabola di ogni governo, in cui le parole pronunciate in campagna elettorale tornano a chiedere conto di sé. Non lo fanno con il tono enfatico dei comizi né con l’indulgenza della propaganda, ma con la secchezza dei numeri e la durezza dei vincoli. È in quel momento che la distanza tra promessa e governo diventa evidente, e che la politica è costretta a misurarsi non con ciò che ha detto, ma con ciò che può realmente fare.
Il governo guidato da Giorgia Meloni si è trovato rapidamente in questo passaggio di verità. Le promesse di Fratelli d’Italia, della Lega e di Forza Italia erano state presentate come un cambiamento radicale, una discontinuità netta rispetto al passato. Meno tasse, più pensioni, più sovranità economica, meno Europa invadente, più Stato dalla parte dei cittadini. Un racconto potente, costruito sull’idea che bastasse vincere le elezioni per liberarsi dei vincoli.
La realtà ha seguito un’altra traiettoria. L’abolizione progressiva delle accise sulla benzina, annunciata come gesto simbolico di giustizia verso famiglie e lavoratori, è evaporata nel giro di pochi mesi. Quelle stesse accise, una volta al governo, sono diventate improvvisamente indispensabili per tenere in equilibrio i conti pubblici. La promessa di superare la legge Fornero, cavallo di battaglia soprattutto della Lega, si è infranta contro il costo strutturale di qualsiasi riforma pensionistica. La flat tax generalizzata, promessa come semplificazione rivoluzionaria, è rimasta confinata a interventi parziali, ben lontani dalla narrazione originaria. Forza Italia aveva promesso una svolta liberale: pensioni minime a mille euro, drastica riduzione della pressione fiscale, sburocratizzazione rapida. Anche qui, la realtà ha imposto gradualismi, rinvii, prudenza. Il debito pubblico, vero convitato di pietra della politica italiana, ha dettato una linea difensiva, trasformando l’audacia annunciata in gestione ordinaria. Ed è significativo che l’uomo al quale è toccato il compito ingrato di non far saltare i conti sia un leghista – il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – proprio come era stato un leghista – Matteo Salvini – a fare sulle pensioni le promesse che sono evaporate più rapidamente.
Non si tratta di un fallimento morale, né di un tradimento ideologico. Si tratta del fallimento di una narrazione elettorale che ha sistematicamente rimosso il tema dei limiti. Si è parlato al Paese come se le risorse fossero infinite, come se l’Europa fosse solo un vincolo politico e non anche un argine finanziario, come se i mercati fossero un’opinione. Ma governare non è un atto di volontà: è un esercizio di compatibilità.
Il debito pubblico non vota, non applaude, non si convince. È l’unico elettore permanente della Repubblica, quello che resta quando le urne si chiudono e le promesse scadono. Ogni annuncio senza copertura diventa una cambiale sul futuro, ogni slogan un’illusione a tempo determinato. La demagogia può essere una scorciatoia per vincere, ma al governo diventa una trappola.
La lezione che questa stagione politica dovrebbe consegnare ai partiti è semplice e severa: promettere l’impossibile non è coraggio, è irresponsabilità. «Prometti poco e realizza quello che hai promesso», consigliava don Sturzo. La politica adulta comincia esattamente dove finiscono le promesse senza conti e iniziano, finalmente, i conti senza propaganda.
Barbara Lezzi
16 h ·
Quante volte si è detto che le indagini di Gratteri finiscono sempre in un nulla di fatto?
Beh, non è vero ma sembra vero perché c’è una solida collaborazione tra media e politica che fa in modo di velare alcune notizie sostituendole con polemiche create ad arte pur di occupare ore e ore di talk televisivi e paginate sui giornali.
La scorsa settimana, è stata pronunciata la sentenza d’appello del maxi processo Rinascita-Scott. Questo processo, avviato grazie alle indagini di Gratteri, è paragonabile a quello celebrato negli anni ’80 contro la Mafia siciliana ma non ha mai avuto il meritato spazio nell’informazione anche se vedeva coinvolti boss, colletti bianchi, politici e divise infedeli.
Nella sentenza d’appello sono stati comminati 1200 anni di carcere per 154 imputati (ci sono anche 50 assoluzioni e una decina di prescrizioni). Tra i condannati spicca il nome di Giancarlo Pittelli, ex senatore di Forza Italia e coordinatore del partito in Calabria. Ha preso 7 anni e 8 mesi di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.
Chiaro come vanno le cose? Ora che il governo sta facendo tutto il necessario per ostacolare il lavoro dei giudici, questa notizia era da nascondere, ed è stata nascosta grazie a un giornalismo sempre più ridotto a passacarte del potente di turno. Considerato che, quando la politica e le mafie si mettono insieme, prendono di mira i soldi delle tasse dei cittadini pagate con sacrificio, trovo ancor più disgustosa questa condizione di opacità.
Permettetemi di suggerirvi un giornalista vero da seguire che approfondisce, tra gli altri temi, proprio la figura di Pittelli
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