Il bilancio dell’anno che sta finendo consegna una società che chiede meno annunci e più risposte concrete

Caro vita e liste d’attesa sempre più lunghe: le emergenze che preoccupano il Paese

(Alessandra Ghisleri – lastampa.it) – Un anno può essere raccontato in molti modi: attraverso i fatti, le decisioni, le crisi e anche attraverso i numeri, che non governano e non protestano, ma si limitano a registrare gli umori i giudizi e le percezioni della gente. I sondaggi di certo non spiegano tutto, tuttavia sono in grado di mostrare ciò che resta: opinioni, paure, fiducia e disincanto di un Paese che, mese dopo mese, ha risposto spesso alle stesse domande con diverse risposte. Nel corso del 2025, le preoccupazioni degli italiani sono rimaste sorprendentemente solide.

Questa stabilità delle preoccupazioni non è solo il riflesso di problemi irrisolti, ma anche di una fiducia che fatica a rigenerarsi, perché quando le priorità restano le stesse anno dopo anno, il rischio non è l’allarme, ma l’assuefazione. In cima alla classifica si conferma l’inflazione: il caro vita e l’aumento dei prezzi si attestano intorno al 39,7%, con un incremento di quasi un punto percentuale rispetto all’anno precedente. Un primato mai realmente messo in discussione, che ha conosciuto anche picchi significativi, come quello di aprile, quando la preoccupazione ha raggiunto il 45,8%; mentre la media annuale si è stabilizzata intorno al 40,5%, segno di un disagio costante e strutturale. Nel ranking al secondo posto si colloca la sanità, in particolare il tema delle lunghe attese per esami e prestazioni. Il dato medio annuo è del 35,8%, tuttavia nell’ultimo mese dell’anno il tema ha sfiorato la vetta, toccando il 39,0%. Per lunghi tratti del 2025, inflazione e salute si sono rincorse, pur marcando un netto distacco rispetto a tutte le altre priorità indicate dai cittadini. A completare il podio di fine anno troviamo il lavoro, al 26,0%, in lieve crescita (+0,4%) come domanda, che supera di poco il tema delle tasse e del fisco, giudicate ancora troppo elevate per famiglie e imprese (25,5%) da 1 italiano su 4. Queste priorità, pur condivise a livello nazionale, non pesano ovunque allo stesso modo: cambiano intensità tra territori, tra grandi città e aree interne, tra Nord e Sud, mostrando un’Italia che vive le stesse paure ma in condizioni molto diverse. Alcuni temi mostrano invece variazioni più marcate.

L’evasione fiscale, ad esempio, registra uno degli aumenti più consistenti: dal 16,9% di inizio anno sale al 18,8%, con un incremento di quasi 2 punti percentuali. Di segno opposto l’andamento del cambiamento climatico, che passa dal 18,8% di gennaio al 14,4% di fine anno (-4,1 punti). Su questo calo ha inciso -con ogni probabilità- il fallimento percepito delle politiche green europee, considerate inefficaci e penalizzanti: dalla spinta accelerata verso l’auto elettrica, che ha messo in difficoltà l’intero comparto automobilistico, fino agli interventi sulle caldaie domestiche. Misure che, più che convincere, hanno colpito direttamente il portafoglio delle famiglie, irrigidendo -e non poco- il giudizio degli italiani, soprattutto sulle politiche europee e i loro risultati. Tuttavia, il giudizio negativo non sembra rivolto tanto agli obiettivi, quanto ai mezzi: quando le politiche pubbliche incidono direttamente sul reddito disponibile delle persone senza offrire alternative credibili, anche le cause più condivise finiscono per perdere consenso. Nell’arco di un anno è cresciuta di 1,2 punti anche la preoccupazione per la gestione dell’immigrazione, probabilmente alimentata dal dibattito attorno al Centro di permanenza per il rimpatrio di Gjader, in Albania. Al contrario, arretra di un punto il tema della sicurezza legata alla microcriminalità. Un dato che va però letto con attenzione: la sicurezza non è oggi meno avvertita, ma semplicemente meno interrogata. È percepita come un problema cronico, apparentemente senza soluzione, raccontato quotidianamente nei suoi episodi di violenza, ma raramente attraverso storie di risposte efficaci o di risultati raggiunti. Il dato sulla sicurezza dunque scende, ma il senso di insicurezza resta elevato: segno che il problema non è più l’emergenza, bensì la consuetudine. Sullo sfondo rimane un’inquietudine più ampia e trasversale: i conflitti internazionali.

Nel corso dei dodici mesi, è aumentata infatti la paura che le crisi in atto possano degenerare in un conflitto globale (51.0%; +3.0% da gennaio 2025 a Dicembre 2025), dando corpo a quella che Papa Francesco ha definito una «guerra mondiale a pezzi». Un timore che non domina le classifiche, ma attraversa silenziosamente molte delle risposte, contribuendo a definire il clima di incertezza con cui il Paese chiude l’anno. Letti nel loro insieme, questi dati restituiscono un Paese meno volatile di quanto appaia nel dibattito politico, tuttavia più fragile di quanto ammettano le istituzioni. Le priorità non cambiano perché non cambiano le condizioni materiali che le generano: il costo della vita, l’accesso alla salute, la sicurezza economica restano il perimetro entro cui si misura la fiducia dei cittadini. E finché quel perimetro non si allarga, ogni nuova agenda rischia di apparire distante, se non estranea.

Il 2025 consegna dunque una società che chiede meno annunci e più risposte concrete, meno visioni calate dall’alto e più politiche capaci di reggere l’impatto con la vita quotidiana. Il calo di attenzione verso il cambiamento climatico, ad esempio, non segnala una negazione del problema, ma una frattura crescente tra obiettivi ambiziosi e strumenti percepiti come ingiusti o inefficaci. Allo stesso modo, la risalita di temi come evasione fiscale e immigrazione indica un’importante domanda di equità e di governo, più che di contrapposizione ideologica. Il rischio, guardando avanti, è che la stabilità delle preoccupazioni si possa tradurre in rassegnazione. Eppure, i numeri parlano chiaro: indicano priorità e non slogan, mostrano dove intervenire e con quale urgenza. Non misurano solo il consenso, ma le attese profonde del Paese. Se letti per ciò che sono, il 2026 potrebbe non segnare una svolta, ma almeno l’inizio di un diverso rapporto tra agenda pubblica e condizioni materiali del Paese.