Meloni sente il suo vice e lo invita ad abbassare i toni. Si rivolge anche a altri ministri con la promessa di ripescare le misure nel 2026

Resa dei conti nella Lega: “Non c’è solo lo spread”. Salvini contro Giorgetti

(di Giuseppe Colombo – repubblica.it) – ROMA – L’affondo è consegnato ai suoi fedelissimi. Lui, Matteo Salvini, resta nelle retrovie per tutto il giorno. Lontano da Giancarlo Giorgetti. Neppure una telefonata al “suo” ministro dell’Economia dopo le tensioni sulla manovra. Ma le prime linee del suo cerchio magico, loro sì che hanno parole da dire. Ruvide. Arrivano nelle ore in cui il titolare del Tesoro si presenta a Palazzo Madama per spiegare ai senatori della commissione Bilancio il nuovo maxi-emendamento che rimette in piedi la Finanziaria assaltata dai salviniani. Un salvataggio, per la controparte, dalla mina vagante della stretta sulla previdenza.

Ecco il messaggio a Giorgetti: «Va bene essere soddisfatti dei giudizi delle agenzie di rating o per lo spread ai minimi, ma i cittadini votano la Lega anche e soprattutto per salvare le pensioni». Sono le ragioni del consenso politico contrapposte a quelle della stabilità dei conti pubblici. Due visioni, due “Leghe”. Il giudizio non si ferma qui. «Non possiamo tagliare la faccia ai nostri elettori, è inaccettabile», insistono gli uomini più vicini al capo di via Bellerio. È la prova che l’incidente sulle pensioni si è chiuso solo formalmente con la cancellazione della tagliola sul riscatto della laurea e le finestre mobili che il Mef aveva inserito nel “maxi” iniziale.

Passeggiando per i corridoi davanti alla commissione Bilancio, il frontman Massimiliano Romeo gongola. Così: «È tornato il celodurismo lombardo». Ecco la Lega delle origini, sfrontata e macha. Guidata da un Salvini ringalluzzito per l’assoluzione definitiva nel processo Open Arms e per la postura sulle questioni internazionali, da Kiev al decreto sulle armi.

Nello stesso corridoio di Palazzo Madama, il ministro dell’Economia si ferma a parlare con i cronisti con una postura decisamente più contenuta. L’amarezza per le accuse che il suo partito ha rivolto ai tecnici del Mef non è svanita. Ma a prevalere sono le ragioni della responsabilità. Non farà un passo indietro, anche se sulle dimissioni si lascia andare a una battuta: «Ci penso tutte le mattine, sarebbe la cosa più bella da fare», scherza dopo aver partecipato per qualche minuto ai lavori della commissione.

Però – precisa – «siccome è la ventinovesima legge di bilancio che faccio, so perfettamente come funziona e che molte cose sono naturali». Il riferimento è proprio alle frizioni delle ultime ore con i parlamentari leghisti. La priorità – è il ragionamento – è la manovra da portare a casa per aiutare le famiglie e le imprese. «A me – dice – interessa il prodotto finale».

Nel chiuso dell’aula della commissione avrà parole ancora più esplicite. Esordisce scusandosi «per quello che è avvenuto». Ringrazia la maggioranza e le opposizioni «per aver reso questi supplementari» e – ironizza – «speriamo di non andare ai rigori». Poi il tono si fa serio: «Come si conviene, il ministro si assume tutte le responsabilità di quello che è accaduto».

Fa scudo ai funzionari del suo dicastero: «Non c’è responsabilità di strutture varie e quant’altro». Ma il messaggio più pesante arriva alla fine: «Credo – scandisce – che il sale della politica sia prendersi le responsabilità e non scaricarle sugli altri». Non cita Salvini, ma i fedelissimi del segretario della Lega identificano il destinatario del ragionamento proprio nel loro leader. Che ieri ha sentito anche Giorgia Meloni. Una telefonata che fonti leghiste definiscono cordiale. In ambienti di governo, invece, il giudizio è differente: la premier avrebbe invitato il suo vice a un comportamento più mite. La stessa sollecitazione è stata rivolta anche ad altri ministri. In tanti sono rimasti delusi dallo spazio concesso da Palazzo Chigi per le modifiche in Parlamento.

Ma la presidente del Consiglio è stata irreprensibile: basta rivendicazioni, soprattutto nei giorni in cui la legge di bilancio, incassato il via libera del Senato, dovrà correre verso la Camera per il via libera definitivo. Ma le richieste ministeriali che non sono riuscite a entrare nel perimetro della manovra sono tante. Alcune — è la promessa di Meloni – saranno ripescate in un decreto. L’anno prossimo. I giochi per il 2025 sono chiusi. Tutto spostato all’anno pre-elettorale. Prima il lucchetto alla quarta manovra e l’avvio della pratica per l’uscita anticipata dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo. È il bollino rosso da togliere via dai conti. Se l’impegno con i ministri è contenuto, una ragione c’è: i margini nel 2026 saranno più ampi, ma non troppo. Un avviso a chi potrebbe pensare che è già scattato il liberi tutti.