Da Sangiuliano a Giuli: i tre anni di impicci e pasticci al ministero della Cultura. L’ultimo caso, l’addio del capo ufficio stampa dell’attuale responsabile del dicastero. Da anni uno scandalo via l’altro

(di Filippo Ceccarelli – repubblica.it) – E meno male che dovevano cambiare la narrazione, smuovere la cappa culturale, rivendicare l’identità nazionale, promuovere la contro-egemonia, costruire un nuovo immaginario. Per quanto in Italia abbondino i chiacchieroni, ci si poteva perfino preoccupare di quei progetti, dietro ai quali non di rado si scorgeva un che di implicitamente minatorio, un tono e un piglio che dietro l’alta missione patriottica tradiva nuove brame e antichi risentimenti.
Ed eccoci qui invece a dar conto dell’ennesimo impiccetto consumatosi a via del Collegio romano, le dimissioni del portavoce del ministro pizzicato col sorcio in bocca a coltivare interessi elettorali in atti d’ufficio, niente che abbia a che fare con la Cultura, ma ormai è questo che passa l’ex convento dei gesuiti: gelosie, capricci, ripicche, allontanamenti, riavvicinamenti, bizzarrie, soffiate ai giornalisti, lettere anonime, conflitti d’interesse, telefonate registrate e chat delatorie a rischio di sequestro investigativo.

Dal Dante liceale (“Fatti non foste”, eccetera) invocato a ogni piè sospinto da Gennaro Sangiuliano aka Genny Delon, al pensiero solare e supercazzolante con scappellamento a destra di Alessandro Giuli, il ministro Basettoni, pare sconveniente scendere al nutrito repertorio di vicende scabrose registrate dalle cronache in questi tre anni.
Sennonché procedere resta pur sempre un dovere civico e dunque, sommariamente e con riserva di qualche dimenticanza: multiplo caso Sgarbi, immenso caso Sangiuliano, fulmineo caso Gilioli, conseguente caso Spano con addentellati, varie ed eventuali. Quindi lite inutilmente dissimulata Giuli–Borgonzoni con inesorabili diramazioni a Cinecittà e relativa sovraesposizione di ulteriori ed esuberanti addetti stampa, per giungere ai sinuosi movimenti del silente, ma fattivo sottosegretario Mazzi cui si deve la geniale orchestrazione del caso Fenice-Colabianchi-Venezi.
E qui, almeno fino a ieri, il triste e stucchevole elenco poteva dirsi concluso, lasciando semmai alla vana malizia di osservatori nullafacenti il compito di trastullarsi su altri fantastici micro-episodi della vita culturale della Nazione. Tipo l’inusitata tarantella sviluppatasi tra la Rai e il San Carlo di Napoli per liberare l’una e incautamente riempire l’altro con il dottor Fuortes; o la nomina a manager degli shop museali del gestore di un autonoleggio di Frosinone; oppure l’indispensabile ritorno dei gladiatori al Colosseo; o anche la meditazione ministeriale il 25 aprile dinanzi al cippo che ricorda la battaglia di Canne, cui è seguito il bacio compensatorio alla tomba di Matteotti; senza ovviamente trascurare, dulcis in fundo, l’ancora misterioso destino delle chiavi d’oro della Città di Pompei.
Ora, un po’ tutto questo dipenderà dai tempi esagerati dell’odierna vita pubblica; un altro po’ sarà colpa della puzzetta sotto il naso dei radical chic che, per paura di perdere i loro privilegi mainstream, disprezzano i grandi sforzi dei patrioti nel valorizzare l’orgoglio italiano.
E tuttavia, anche respingendo la tentazione di addebitare tale caos a radici autoritarie, impreparazione di base, gaglioffaggine istituzionale e incapacità di distinguere tra governo e comando, ecco, detto chiaro chiaro il sospetto è che sia Sangiuliano che Giuli, nonostante ogni pomposa apparenza, amino molto più loro stessi che la Cultura. E comunque quel ministero che sembra un ibrido tra Temptation Island e Il gabinetto del dottor Caligari.
Ormai separata dalle sue antiche e silenziose accompagnatrici (l’istruzione, la ricerca, l’ispirazione, la memoria), sempre più la Cultura, dea oltraggiata, si è ridotta a merce, pretesto, spot, brand, marketing, packaging, broadcasting, illusione e Grandi Eventi da consumare e dimenticare. Giuli, che conosce la mitologia, forse sa anche quali guai comporta offendere quel tipo di divinità.
TOMMASO MERLO – La deriva italiana e l’ammutinamento
L’Italia è una provincia marginale dell’impero americano che osserva da lontano il suo squallido declino. Ossequiosa, servile. Più che uno Stivale una Lingua leggermente rivolta verso Est.
Ogni tanto a Roma scoppia qualche polemica da bar di natura paranoide e subito dopo si ripiomba in uno stallo che è economico ma anche politico, sociale e culturale.
Nessuna visione, nessun vero dibattito, nessun entusiasmo.
Il mondo è un mare in tempesta e l’Italia è alla deriva.
Le statistiche dicono che di questo passo gli italiani scompariranno dalla faccia della terra, l’unica cosa che aumenta oltre ai prezzi sono le dimensioni dei cimiteri.
L’Italia rimarrà una portaerei americana in disuso, una casa vacanze per pensionati del nord Europa mentre i vucumprà bangladesi mostreranno alle orde di turisti cinesi i capolavori rinascimentali e gestiranno gli stabilimenti balneari invece di fare avanti indietro sulla spiaggia così magari i lettini costeranno di meno.
Degli italiani autoctoni resteranno giusto delle sparute comunità appartate nell’entroterra in cui si tornerà a vivere di una economia di sussistenza ricordando i bei tempi che furono.
Nel resto del paese si parlerà swahili e mandarino, il cuscus prenderà il posto degli spaghetti e le tuniche il posto dei gessati.
Tra gli artefici di tale capolavoro politico anche i patrioti de noialtri, i sovranisti che in nome della sacra patria volevano fermare il vento globale con le mani ed affrontare il futuro con la testa rivolta all’indietro. Verso giurassici rigurgiti ideologici per colmare un drammatico vuoto di contenuti. Leoni all’opposizione, pecorelle neoliberiste al potere.
E dall’altra parte non sono messi meglio. Siamo in mano alle stesse classi dirigenti da decenni. Una mossa sensata se si trattasse di fenomeni, un vero e proprio suicidio se si tratta di professionisti della chiacchiera politichese e della poltrona vellutata.
Per pulire i cessi della stazione serve un master post laurea, per governare un paese la quinta elementare. E più fallisci, più fai carriera. Basta che permetti alla tua cordata di salire e al sistema di galleggiare.
Ed eccoci qui. Con al timone il peggio del paese, invece che il meglio. Politicanti che sprecano gran parte delle loro energie ad occuparsi del guardaroba, dei loro imperi materiali e social e di beghe tra loro invece che del bene comune. E quando si degnano di fare politica, non hanno né idee né capacità né slancio e così rimaniamo incastrati in un mediocre stallo che non è solo economico ma anche politico, sociale e culturale. Sotto una cappa asfissiante, storditi da una marketing elettorale ormai permanente e rapiti da una realtà sempre più virtuale e quindi manipolabile a piacere. Un vero e proprio suicidio nazionale, perché in un mondo che corre, se non tieni il passo sei spacciato. E soprattutto in fasi di drastico cambiamento come queste.
Altro che slinguazzare gli stivali dell’ultimo imperatore americano, l’Italia deve posizionarsi in un mondo sempre più multipolare e continentale con fenomeni globali come quelli migratori destinati a stravolgere le nostre società.
Per salvarsi l’Italia deve piazzare al timone i più validi, ma non solo. Deve ritrovare una rotta precisa e soprattutto condivisa. I capitani da soli non vanno da nessuna parte, serve un equipaggio e passeggeri affiatati. Serve partecipazione, unità d’intenti e valori condivisi che solo classi dirigenti all’altezza possono incarnare.
Ed invece i politicanti non vedono oltre la prossima tornata elettorale e si godono satolli l’alta società. Se stessi first è il vero slogan di questa era. Tutti a lottare per strappare qualche briciola mentre la nave affonda ed i cittadini sono sempre più poveri, più vecchi, più amareggiati, con intere generazioni che fuggono all’estero in cerca perlomeno di aria più respirabile. Mentre quelli che restano disprezzano la politica al punto da non votare e non informarsi nemmeno più. Una crisi politica drammatica che mette a rischio la stessa democrazia.
Siamo alla deriva ed è assurdo sperare in qualche miracolo. Lo insegna la storia, se i passeggeri non vogliono sprofondare negli abissi devono reagire, devono ammutinarsi e riprendersi il timone. Pacificamente, democraticamente ma ribellarsi all’interno dei partiti esistenti oppure creandone di nuovi. È questa l’unica speranza per l’Italia. Un sussulto della società civile che imparando dagli errori del passato, la smette di scannarsi a vicenda e farsi manipolare e si riunisce per dare vita ad una politica in grado di superare la tempesta e portare la malconcia nave italiana verso nuovi orizzonti.
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Ai sinistrati sembrerà strano, ma un ministro di destra non può consentire a un suo subordinato di usare la Mail dell’ufficio per fare campagna elettorale per un candidato di destra.
Loro, i sinistrati, si proteggono sempre, come fanno i mafiosi.
Una dimostrazione? REPORT ha a sua disposizione una Mail con cui un componente del Garante informava il suo ufficio che sarebbe andato da Arianna Meloni. Ordinaria comunicazione alla struttura che chiunque sia abituato a lavorare deve fare. Oltre che alla struttura quella Mail è arrivata anche a Report che, secondo quanto riportato dai giornali, si sarebbe messo a pedinare Chiglia.
Si potrebbe desumere, quindi, che i dipendenti del Garante possano uscire dall’ufficio senza informare i propri capi e che qualcuno potrebbe essere uno spione al servizio di Report. Lo farà per affinità ideologica o dietro compenso?
E il responsabile della sicurezza non dovrebbe essere il primo a cercare la talpa che invia informazioni interne a Report? Chi protegge la talpa?
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Il gatto e la volpe o, se si preferisce: scemo e più scemo.
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