Il dato emerge dall’ultimo documento di finanza pubblica: lo Stato incassa ormai il 42,8% del Pil dai cittadini

Allarme pressione fiscale: la curva cresce ancora. I dipendenti i più tartassati

(di Giuseppe Colombo – repubblica.it) – La cifra da cerchiare in rosso spunta in una tabella. Non una qualsiasi. A mostrare l’impennata della pressione fiscale è uno dei grafici del Documento programmatico di finanza pubblica, la mappa delle previsioni economiche del governo. Ecco l’autocertificazione: l’indicatore che misura quanto lo Stato chiede ai cittadini per far funzionare la macchina amministrativa e finanziare i servizi pubblici salirà quest’anno al 42,8%. Tre decimali in più rispetto al 2024. Un salto importante considerando che le oscillazioni sono solitamente più contenute. Anche quelle degli anni successivi, quando la pressione fiscale calerà sì, ma di pochissimo. Al 42,7% nel 2026 e nel 2027. Poco più giù, al 42,6% nel 2028. Ma l’andamento, seppure sostanzialmente stabile, rimarrà collocato comunque su livelli elevati.

Il vulnus della politica fiscale della destra al governo prende forma qui. Per Giorgia Meloni non è un problema. La premier l’ha detto anche in tv, a marzo. «Quando aumenta la pressione fiscale – sottolineò la premier – non è che necessariamente aumentano le tasse, i dati aumentano perché c’è più gente che lavora». A prova citò l’esempio di un percettore di Reddito di cittadinanza che ha trovato lavoro e quindi paga le tasse.

Nelle ultime ore, la presidente del Consiglio ha ribadito il concetto ai suoi. Il ragionamento recita grosso modo così: dobbiamo spiegare bene cosa è la pressione fiscale perché altrimenti i cittadini pensano che stiamo alzando le tasse, mentre noi le stiamo abbassando. Il messaggio è stato ben recepito dal suo partito: in molti, dentro Fratelli d’Italia, si stanno già attrezzando per diffonderlo in batteria. Ma il collegamento tra la crescita dell’occupazione e quella della pressione fiscale rischia di rilevarsi debole. Così come la certezza che bastano il taglio del cuneo e la sforbiciata all’Irpef per invertire il trend. ll perché è legato alle ragioni dell’aumento della pressione fiscale. Come ha ricordato la stessa Meloni, l’indicatore in questione è un rapporto tra le entrate e il Pil. È proprio questo equilibrio a essere precario. Le maggiori tasse e i contributi in più pagati dai lavoratori fanno aumentare il numeratore, mentre nel denominatore finiscono i maggiori redditi, che fanno aumentare il prodotto interno lordo. Ma questi maggiori redditi sono in gran parte espressione di un’occupazione a basso valore aggiunto. Generano Pil, ma non quanto sarebbero in grado di fare lavoratori con stipendi importanti. Da questa criticità si arriva al cuore del problema: i redditi dei lavoratori dipendenti sono tassati più della media. A fronte di un aumento dei salari, cresce anche il Pil. Ma le entrate crescono di più. E quindi aumenta la pressione fiscale.

E poi c’è il fiscal drag, l’aumento “nascosto” delle imposte per via dell’inflazione. Significa aliquote fiscali più alte senza che il reddito aumenti in termini di potere d’acquisto. La pressione fiscale è cresciuta anche perché queste aliquote non sono state indicizzate all’inflazione. Il risultato? Con aliquote più alte, molti cittadini si sono ritrovati a pagare più tasse. Neppure il taglio del cuneo fiscale, reso strutturale, è riuscito a scongiurare l’effetto del fiscal drag. Almeno non per tutti i lavoratori.