La scelta di Meloni tra Usa e Ue: America first. “Nasciamo tutti matti. Qualcuno lo rimane” Samuel Beckett, Aspettando Godot

(Andrea Malaguti – lastampa.it) – La frase più sgradevole di queste ultime confuse settimane europee l’ha pronunciata il cancelliere tedesco Friedrich Merz, presidente della Cdu, l’Unione Cristiana Democratica, tendenzialmente un moderato, in ottimi rapporti con Palazzo Chigi. «Lavoriamo sui rimpatri di massa. I migranti sono pericolosi, le vostre figlie lo sanno». Sillogismo da prima liceo con professori disturbati: i migranti abusano delle donne, le vostre figlie sono donne, i migranti abusano delle vostre figlie. Una criminalizzazione surreale, specie se espressa da un Capo di governo, che gli incendi dovrebbe spegnerli e non appiccarli. Ha ragione Beckett: “Nasciamo tutti matti. Qualcuno lo rimane”.

Le “Tochter gegen Merz”, le figlie contro Merz, hanno marciato davanti alla sede della Cdu, cartelli alla mano, per prendere le distanze da questa generalizzazione sgangherata, razzista e velenosa come ogni generalizzazione.

on parla a nostro nome», hanno gridato, segnalando una volta di più la distanza pericolosa che anche nei paesi democratici divide chi guida da chi ambirebbe ad essere ragionevolmente guidato. Non un significativo e legittimo dissenso, una frattura valoriale. La sicurezza è una necessità imprescindibile, l’indicazione manipolatoria di capri espiatori è la sua declinazione più inutile, facile e pelosa.

Ripensavo al quadro berlinese sentendo parlare alla Camera Giorgia Meloni che, tra mille altre cose, spiegava convintamente quanto lei, e dunque noi, sia decisamente contraria all’abolizione del diritto di veto nell’Unione, quella norma, che consente a qualunque paese dei ventisette di impedire in solitudine agli altri ventisei di fare ciò che ritengono giusto. L’Ungheria (esempio casuale) non è d’accordo? Si fermano i motori. Problema piuttosto serio con l’Europa «sotto attacco e alle prese con la necessità di difendersi» (citazione di Mario Draghi).

Ora, che cosa unisce l’infelice intemerata di Merz e il catenaccio burocratico rivendicato da Meloni? Sintetizzando male, la paura. E la mancanza di una visione. In sostanza, il contrario di quello che serve.

Merz ha paura dell’Afd. L’estrema destra tedesca cresce a dismisura nel voto e nei sondaggi sventolando le solite bandiere: no all’Islam, no agli stranieri. Sono gli xenofobi nazionalisti suprematisti bianchi a dettare l’agenda e il cancelliere Cristiano Democratico (fa sorridere), invece di prendere le distanze si adegua, alimentando la spirale del muro contro muro e del “o noi o loro” che così bene incarna uno spirito dei tempi fatto apposta per negare tutti i principi – di nuovo, i valori – su cui era stata pensata ed è nata l’Unione. Ci vuole un gran coraggio a pensare europeo. Ma bisogna continuare a farlo. Pena l’estinzione. Il passaggio dall’Europa degli Stati Nazione all’Europa Federale non si è mai realizzato e i risultati sono sotto i nostri occhi. Un continente marginalizzato che combatte per resistere in una nuova era e in un nuovo mondo. O, come direbbe Daniel Cohn Bendit: «Un continente colpito da uno strabismo nazionale senza ambizioni, senza aspettative e senza speranza».

La paura di Meloni? Quando rivendica il diritto di veto lo fa per due motivi: un antico, e ormai forse involontario, riflesso conservativo antieuropeista che le consente di assecondare meglio la sua passione per la Casa Bianca trumpiana, e un’ammirazione, rivendicata, per Viktor Orban e il suo autoritarismo nazionalista che presumibilmente invidia. Dovrebbe scegliere da che parte stare, ma l’idea stessa di prendere una decisione la traumatizza, condannandoci se non all’immobilità per lo meno al ruolo di ruota di scorta.

Nel caso della nostra Presidente del Consiglio l’indecisione e l’incoerenza finiscono paradossalmente per rivelarsi una virtù. Non ama Bruxelles – ricordate l’immortale: «per questi signori la pacchia è finita»? – ma, come dimostra la risicata manovra da diciotto miliardi, fa quello che Bruxelles dice. Non abbassa l’età pensionabile, al contrario la alza. Non riduce le accise. E non mette più in discussione la moneta. Per giunta chiede sacrifici a banche e assicurazioni. Scelte che avrebbe potuto fare, identiche, un premier di sinistra. O persino Mario Draghi. Meloni è una sorta di Giano bifronte della politica, penetrante ed esitante, smaniosa di popolarità, regina di una dialettica spiccia, efficace e diretta, capace di esaltare gli osannatori a cottimo ma anche di affascinare i più fragili, che un tempo cercavano rifugio in una sinistra logorata dalla dilapidazione dell’ovvio.

Le finanziarie ormai si fanno con lo stampino e indicano, nel bene e nel male, la continuità della vita del Paese. Non sono un atto di governo, ma la fotografia della casa. La mediazione tra interessi divergenti, tenuti assieme senza conseguenze troppo dolorose. Scambi e negoziati. Come ha scritto Alessandro De Angelis su queste colonne, la differenza tra Meloni e Rumor, in questa ottica, non è poi così significativa. Ma la domanda di fondo rimane: che cosa vuole davvero la premier? Quale tipo di mondo immagina? E perché, nei suoi discorsi pubblici, invoca sempre i valori Occidentali e mai quelli europei? La prima risposta è che per lei nazione, popolo e Trump vengono prima. Peccato. Perché in un Vecchio Continente in cui la Francia sta colando a picco, la Germania è in crisi economica e alle prese con i rigurgiti nazionalsocialisti, l’Italia potrebbe diventare il centro di un nuovo Rinascimento. Illusioni. Meglio restare sulla scia di Washington. Manca il colpo d’ala, o, per dirla con Carl Schmitt, manca colui, o colei, che governa lo stato d’eccezione. Nell’attesa il mondo va avanti alla velocità della luce e ci lascia indietro. Scriveva Brel: “Conosco delle barche che tornano sempre quando hanno navigato. Fino all’ultimo giorno, e sono pronte a spiegare le loro ali da giganti. Perché hanno un cuore a misura di oceano”. Il nostro è a misura di rigagnolo. Sic stantibus rebus, persino la presenza del diritto di veto (che solo un matto può amare in astratto) diventa una mini-garanzia per il futuro. Pensate ad uno scenario in cui l’Afd fosse alla guida della Germania e Le Pen si insediasse all’Eliseo. A quel punto l’idea del diritto di veto diventerebbe persino rassicurante.

Il punto vero, senza bisogno di tornare a Draghi, è che l’Europa avrebbe bisogno di obbligarsi a ciò che non ha: una Costituzione condivisa. Senza non si sta in piedi. Diritti e doveri devono avere un bilanciamento. Le maggioranze vanno protette dai piccoli e i piccoli vanno protetti dalle maggioranze. Aspettando Godot, ci possiamo rifugiare negli accordi rinforzati. Nella costruzione di piccole federazioni sentimentali che individuano terreni comuni – la Difesa per i Volenterosi – e si organizzano in modo autonomo. Non era così che doveva essere. Ma è così che è. Navighiamo a vista, con una premier che tiene i piedi in due scarpe, affascinata da un Donald Trump che, mentre si arrovella per imporsi con un incostituzionale terzo mandato che scatenerebbe la guerra civile, dà l’impressione di essere uno di quegli uomini che si ubriacano con te per poi tradirti meglio. Davvero Meloni, con la sua evidente rapidità di pensiero, si trova a suo agio in questo clima da osteria?