(di Sottosopra* – ilfattoquotidiano.it) – Volendo ci sarebbe persino un libro bianco, promosso dall’allora ministro per i Rapporti col parlamento Federico D’Incà: “Per la partecipazione dei cittadini”, si intitola, e benché già nel 2022 il ministro spiegasse di averlo voluto perché “l’astensionismo è il sintomo di una malattia”, è finito a prendere polvere insieme a molte altre buone intenzioni. Un vero peccato, considerato che in questi ultimi tre anni la ritirata della cittadinanza dalle urne non ha fatto che consolidarsi: basti dire che nella Toscana già patria delle “Case del Popolo” alle Regionali ha votato meno della metà degli aventi diritto, il 48% appena. Eppure di astensionismo si parla sempre più, con grande preoccupazione di editorialisti e commentatori per una popolazione apparentemente disinteressata al proprio futuro. Per capire la malattia, però, lo schema andrebbe rovesciato, chiedendosi non tanto perché le persone hanno smesso di votare, ma cosa hanno fatto i partiti e la politica nel complesso per portarle alle urne.

La missione e la funzione essenziale delle formazioni politiche, cioè organizzare e strutturare il rapporto con gli elettori, costruendo un dialogo e coinvolgendoli nella vita pubblica, sembrano essere scomparse. Per troppi candidate e candidate, cercare i voti è diventato poco più di uno slogan, necessario alla personalizzazione su cui si fonda l’elezione diretta delle Amministrative, con parecchi paradossi: se infatti quel meccanismo viene presentato alla popolazione come “la possibilità di scegliere”, salvo comprimere nei fatti la decisione tra due nomi, alle Politiche – nel 2022 l’affluenza non è arrivata al 64% – la dinamica dei listini bloccati elimina persino quella possibilità, avvelenando il rapporto con il corpo elettorale e con i territori. Ma c’è di più. La personalizzazione porta a esprimere una preferenza soltanto chi pensa di avere qualcosa da “guadagnare”, per via di relazioni personali, sociali, professionali e di affiliazioni a gruppi di potere, da quell’elezione. Chi invece sta ai margini – territoriali, sociali e culturali – non ha alcuna ragione per credere che andando a votare la propria condizione migliorerà, qualunque sia l’esito, perché a candidarsi non sono quasi mai coloro che vengono dalle classi e dalle aree subalterne, che ne conoscono il linguaggio e le priorità. L’astensione, insomma, può essere in qualche caso una forma di protesta attiva, ma spesso diventa apatia: non è un caso se tanto gli anziani soli e quanto i giovani che non studiano e non lavorano – cioè due tra le fasce sociali più dimenticate – ne costituiscono un bacino enorme. Per completare il quadro ci sarebbero poi le questioni tecniche e strutturali da discutere: come è cambiata la vita negli ultimi decenni e quanto questi cambiamenti incidono sulla presenza ai saggi? Basti pensare a milioni di fuori sede che per votare devono sobbarcarsi la fatica nonché i costi di lunghi viaggi: per evitare che il loro diritto diventi inesigibile, ci sono soluzioni possibili che vanno dal voto anticipato a quello per posta, oltre a tutte le forme consentite dalla trasformazione digitale. Mancano quindi soluzioni pratiche, e manca soprattutto nei partiti una riflessione sulla propria funzione, sulla necessità di confronti aperti con la cittadinanza nonché sulle dinamiche di cooptazione e affiliazione in cui sono immersi, che finiscono con il riprodurre élite incapaci di sfondare il perimetro di classe e il tetto di cristallo di cui si nutre la rinuncia al voto. Mentre Giorgia Meloni e il suo governo premono per un sistema elettorale sempre più personalistico, ricalcando la disgraziata idea che dal sindaco d’Italia renziano si è evoluta nell’attuale osceno premierato, le opposizioni hanno molto lavoro da fare: in ballo c’è nientemeno che la democrazia rappresentativa.

*Per il Forum Disuguaglianze e Diversità