
(di Francesca Caferri – repubblica.it) – Il rumore dei bombardamenti non turba la preghiera. Mentre su Gaza city, ben visibili a occhio nudo, si alzano colonne di fumo delle esplosioni, dall’altra parte del confine sotto una tenda bianca un gruppo di uomini con indosso il talled, lo scialle della preghiera, è intento a recitare la benedizione di Sukkot, la festa che ricorda la permanenza nel deserto degli ebrei in fuga dall’Egitto. «Loro sono tornati, lo faremo anche noi», ci dice Ayalet Schlussel.
La signora Schlussel è la leader del gruppo di coloni appartenenti al movimento estremista Nachala che quest’anno hanno scelto di onorare la tradizione di mettere tende – tipica di Sukkot – a modo suo. Piantando le loro al confine fra Israele e Gaza, il più vicino possibile alla Striscia.
Dal suo punto di vista, il luogo prescelto – il monumento Black Arrow accanto al kibbutz Mefalsim, dove tredici persone furono uccise dagli uomini di Hamas il 7 ottobre 2023 – è perfetto: la recinzione di confine da qui non dista più di un chilometro e mezzo, Gaza city qualcosa in più. Da questa collinetta i palazzi sventrati di quello che era il centro abitato più popoloso della Striscia si vedono a occhio nudo. I cumuli di macerie pure.
Schlussel era parte dei coloni di Gush Katif, il gruppo di 17 insediamenti ebraici i cui ottomila abitanti furono portati via con la forza da Gaza nel 2005, quando il premier Ariel Sharon decise l’evacuazione della Striscia.
Da qualche anno il suo movimento, a lungo marginalizzato, è tornato al centro della scena: dapprima (era il settembre 2022) con l’arrivo al governo dei due rappresentanti dell’estrema destra espressione dei coloni, i ministri delle Finanze BezalelSmotrich e della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir.
E, dopo il 7 ottobre 2023, con un’offensiva per tornare a Gaza politica e mediatica fortissima: conferenze, manifestazioni, proteste e continue apparizioni tv di Daniella Weiss, leader del gruppo. Qualche mese fa nei pressi di Sderot (la città principale di questa zona) a marciare verso la Striscia erano in 50mila, arrivati da tutti gli insediamenti della Cisgiordania.
Allora Weiss presentò il piano per la costruzione delle colonie sotto gli occhi di Ben Gvir: ogni volta che si sentiva il rumore delle esplosioni su Gaza la folla applaudiva.
A quella marcia è seguita una conferenza a Gerusalemme con ospiti da tutto il mondo. E dibattiti alla Knesset, il parlamento. Ma poche iniziative hanno fatto rumore come quella delle tende di Sukkot con vista Gaza: per il luogo dove si tiene, certo. Ma anche perché dura per otto giorni: il segno che non si tratta di una mossa estemporanea, ma che è un piano concordato con le autorità, chiamate a offrire protezione a pochi chilometri da una zona di guerra attiva. «Siamo stati autorizzati dall’esercito e dalla polizia», conferma Schlussel. «Noi non ci nascondiamo. Ogni volta che organizziamo qualcosa, lo facciamo più vicino a Gaza. È il nostro modo per dire che torneremo».
A pensarla come lei sono una dozzina di famiglie radunate qui: le donne indossano gli abiti lunghi tipici delle colone e i loro grandi turbanti. Gli uomini girano con le pistole in tasca e gli m16 di ordinanza a tracolla, i bambini – tanti, tantissimi – corrono scalzi fra gli alberi. Domenica a loro si uniranno migliaia di persone, con la presenza di parlamentari e forse anche di Ben Gvir e Smotrich.
La prospettiva dell’applicazione di un piano, quello di Trump, che prevede il ritiro dell’Idf e la possibilità per la gente di Gaza di restare, preoccupa la signora Schlussel e i suoi. «Siamo contrari. Sarebbe un riconoscimento per Hamas – ci dice – se li premiamo lasciando la Striscia, per quale motivo non dovrebbero preparare un altro attacco? Tutti parlano degli ostaggi catturati il 7 ottobre, noi ci preoccupiamo degli ostaggi futuri. Quando ci costrinsero a lasciare le nostre case nel 2005, ci dissero che se fossimo andati via tutti saremmo stati più sicuri: abbiamo visto il risultato. Solo se Israele tornerà a Gaza potremo assicurarci che non ci sarà un altro 7 ottobre». […]
Qualcuno potrebbe ricordare a questi pazzoidi esagitati che Gaza NON E’ MAI STATA PARTE DEI REGNI EBRAICI ANTICHI? (Giuda e Israele)
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quando queste donne mettono al mondo simili esseri e effettuano la circoncisione, purtroppo gettano via la parte sbagliata
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Altro che hamas, sono questi pazzi furiosi e sanguinari che guidano Israele. E ci trascineranno tutti nell’abisso.
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Sono stato alcuni giorni in Svizzera per affari, torno e succede un casino, vabbè, tutto regolare.
Questa signora, che conosco benissimo avendo avuto la sfortuna di incontrarla quasi una ventina di anni fa (era già così pure allora) dovrebbe sapere, perchè gliel’ho anche scritto per lettera (che non so se abbia mai letto, di sicuro non mi ha mai risposto) che Gaza non ha mai fatto parte, mai dei regni ebraici antici, mai. Tant’è che, è opinione ormai accertata dagli storici, quando la Sacra Famiglia (Gesù, Maria e Giuseppe) dovette fuggire dalle persecuzioni di Erode e si parla di “fuga in Egitto” nei Vangeli, i tre si rifugiarono, pare, proprio nella zona di Gaza che era controllata dagli egiziani.
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Loro sono il popolo eletto ma noi siamo il popolo degli ELETTORI.
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Francesca Albanese, nostra signora dei pro Pal: il «metodo» della relatrice speciale Onu che non ha mai un dubbio
di Fabrizio Roncone
Ovunque arrivi, è accolta da folle e applausi, c’è sempre un gran sfoggio di kefiah e bandiere palestinesi: la giurista originaria di Ariano Irpino, 48 anni, è il personaggione di sinistra del momento. Lo sconcerto nel Pd per il suo trattamento riservato a Segre
Che ha fatto e detto oggi, dove sarà domani e soprattutto chi è, chi non è, cosa pensa d’essere diventata Francesca Albanese, sempre così teatrale, da palco, però molto anche da tivù, da talk, con un eloquio affilato e avvolgente, con una smorfia che sembra un sorriso, i capelli argentati, gli occhiali modaioli, una studiata eleganza radical chic sui toni pastello, un po’ stimata relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi e ormai un po’ Nostra Signora dei pro Pal, piena di travolgente passione e di feroce prosopopea (poi vi racconto la battuta che ha rivolto a Zoro, durante Propaganda Live, su La7), spavalda e senza mai un filo d’imbarazzo, un dubbio, un lampo di vergogna: nemmeno quando sta lì a spiegarti che quelli di Hamas non sono necessariamente dei tagliagole, Hamas ha fatto persino cose buone, i terroristi bisogna capirli e quella che invece non si può proprio capire è la senatrice Liliana Segre, colpevole d’essere tornata viva da Auschwitz, numero di matricola 75190 tatuato sull’avambraccio sinistro, e perciò troppo poco imparziale, poco lucida quando riflette sull’opportunità di usare il termine genocidio di fronte a quanto accade a Gaza (quando Albanese parla della Segre, di solito, sbuffa e alza il sopracciglio tra fastidio e supponenza: una maestrina spazientita).
Nel Pd, invece, Albanese scatena disagio, sconcerto. Dichiarazioni critiche arrivano da Sensi e Picierno, da Verini e Corrado. Desta stupore anche lo scabroso comportamento di molti sindaci di area dem che, facendosi bastare le sanzioni a cui è stata sottoposta da Israele e Stati Uniti, si sono messi in fila per baciarle, onorati, la pantofola. Alcuni sono andati oltre. Il 4 agosto, a Bari, nel teatro Piccinni, il primo cittadino Vito Leccese decide di consegnarle le chiavi della città. A Napoli le viene assegnata la cittadinanza onoraria. Identica la delibera votata dalla maggioranza di centrosinistra nel Consiglio comunale di Bologna. A Firenze, all’ultimo, frenano. Ma, a Modena, le viene dedicata una standing ovation dentro la chiesa di San Carlo. E, negli occhi di tutti, restano comunque le immagini di lei, della Albanese, sul palco del teatro Valli di Reggio Emilia.
Questa giurista di Ariano Irpino — 48 anni, ha studiato a Pisa, Londra, Washington: vive, sembra, in Tunisia, con due figli e il marito, Massimiliano Calì, funzionario della Banca Mondiale — s’è infilata dentro una vicenda mediatica fragorosa e inattesa ed è testardamente già riuscita a diventare il personaggione sinistrorso del momento. Ovunque arrivi, è accolta da folle e applausi, c’è sempre un gran sfoggio di kefiah e bandiere palestinesi, slogan duri, pugni chiusi. I giornali mandano inviati a seguirla, lei al centro e il mischione delle telecamere e dei microfoni tutt’intorno: dichiara, arringa, e se qualcuno non comprende bene, eccola esibirsi nelle sue faccette, alza gli occhi al cielo, arriccia il naso. Non vi è chiaro? Davvero devo spiegarvi la differenza tra il bene e il male? Così ci scappa sempre una polemica, qualche baruffa che rimbalza a Montecitorio.
Bonelli&Fratoianni, i capi di Avs, gongolano. Loro — ovvio — smentiranno subito: ma gira voce che stiano pensando di replicare con Albanese, alle prossime elezioni politiche, l’operazione portata a termine alle ultime Europee (e fu un notevole successo) candidando Ilaria Salis e Mimmo Lucano.
Il sindaco Marco Massari, che si accinge a premiarla, dice con toni ragionevoli: «… Credo che la fine del genocidio e la liberazione degli ostaggi siano condizioni necessarie per avviare un possibile processo di pace». Dalla platea partono fischi, «Buuu!», gente che s’alza indispettita, insulti, «Vergognati!».
Lei ghigna, annusa l’atmosfera. Va di recita: si copre il viso con la mani, scuote la testa, prende la parola. È tagliente: «Il sindaco ha detto una cosa non vera: la pace non ha bisogno di condizioni». Però non le basta. Infierisce, beffarda: «Mi deve promettere che questa cosa non la dice più».
È in questo momento che Francesca Albanese compie il salto. E inizia a comportarsi quasi da leader. Di cosa? Forse non lo sa ancora bene nemmeno lei. Ma la suggestione è netta quando su Instagram si collega con la Flotilla in navigazione, o quando corre ad abbracciare Greta Thunberg. Poi è opportuno considerare l’ostinazione con cui attacca la senatrice Segre prima su Facebook e, dopo, con un post su X. C’è del metodo, probabilmente una strategia. Con annessi colpi di scena. Come su La 7, a In Onda, dov’è ospite insieme a Francesco Giubilei, presidente della Fondazione Tatarella. Il quale, ad un certo punto, cita «la posizione di buon senso sul genocidio» della Segre. Allora lei, la Albanese, di colpo s’alza e se ne va. Luca Telese, che conduce insieme a Marianna Aprile, stempera e dice che «era previsto, alle 21 doveva andare, niente di polemico». Al peggio, in effetti, assistiamo qualche ora dopo: con Albanese che, in un’intervista a Fanpage, parla della senatrice con toni gonfi di violento sarcasmo (ha commentato ieri sul Corriere il figlio Luciano Belli Paci: «L’Albanese agisce più da militante che da giurista»).
Il resto è cronaca battente. Con il monito di Enrico Mentana: «È una fesseria, ed è offensivo, involontariamente offensivo, sostenere che nelle televisioni italiane non si siano trasmesse delle immagini perché c’è una sorta di superpotere che lo impedisce». Lei incassa, non replica, ma va a Genova, all’università occupata dagli studenti. È il 7 ottobre, secondo anniversario del pogrom. Entra nel cortile come una star. Striscioni: «Intifada fino alla vittoria». Cori: «Ora/ e sempre/ resistenza!». Lei quasi li benedice.
E così torniamo alla domanda iniziale: chi è Francesca Albanese? Per ora bisogna affidarsi molto alle impressioni, e a qualche piccolo dettaglio. Per dire: era piuttosto eloquente il modo con cui si è rivolta a Diego Bianchi, poche sere fa, a Propaganda Live. «Ti pare normale che tu mi fai un’intervista dopo tre anni che sono relatrice per la Palestina?».
Ma aveva quel non so che nello sguardo.
Capito cosa?
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Se vogliamo dirla tutta, mi sfuggono i meriti della senatrice Segre.
Cosa sarebbe stato della sua vita senza l’esperienza tragica di 80 (ottanta) anni fa?
L’Albanese non è partita con alibi, ha fatto la sua carriera e con successo. Non appartiene a popoli innominabili o specie protette di sorta.
Di che parla Roncone?
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La Segre nega il genocidio perché vuole l’esclusiva.
È questo che gira le scatole. Molto, anche.
Facendo così perde tutto il “vantaggio”, perché chi, avendo subito, non ha empatia verso le ALTRE vittime, non è più degno di essere compatito… (da con-patire)
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Che elemento disgustoso, questo Roncone.
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Crede di aver dipinto un ritratto, ha solo gettato fango su una persona a cui non è degno di stringere la mano.
D’altronde chi ha il male nel cervello e nel cuore, ce l’ha anche negli occhi.
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Roncone merita lo stesso disprezzo che meritano Sechi o Porro. Robaccia.
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State moderando la qualunque…problemi di controllo esterno?
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