
(di Francesco Battistini e Milena Gabanelli – corriere.it) – Il 10 ottobre viene comunicato il nome del vincitore del Nobel per la Pace. Per meritarlo occorre aver lottato attivamente per la fratellanza fra popoli, la difesa dei diritti umani, la risoluzione dei conflitti. I candidati sono centinaia, come ogni anno. I nomi sono segreti e per regolamento deve passare mezzo secolo, prima che vengano resi noti, ma si sa che stavolta il più determinato ad avere il riconoscimento è il presidente americano Donald Trump. «Ho concluso sette guerre», è tornato a vantarsi nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu: «E tutti questi accordi – ha spiegato – li ho conclusi senza nemmeno menzionare le parole “cessate il fuoco”». Già nel 2018 e nel 2020 Trump s’era stupito di non avere ancora vinto il Nobel, al contrario dei suoi predecessori Theodore Roosevelt (l’unico repubblicano), Thomas Woodrow Wilson, Jimmy Carter e Barack Obama. Secondo i suoi calcoli, ha fatto terminare una guerra al mese: tra Israele e Iran, Congo e Ruanda, Cambogia e Thailandia, India e Pakistan, Serbia e Kosovo, Egitto ed Etiopia, Armenia e Azerbaigian. Sull’Ucraina o su Gaza, nemmeno un plissé. Ma in un altro intervento, assieme al premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha detto di meritare il Nobel anche per gli Accordi di Abramo firmati nel 2020.
Durante i suoi due mandati alla Casa Bianca, Trump è stato proposto per il premio da almeno 15 personalità, la maggior parte provenienti dal suo staff o dalla sua parte politica.
Chi lo ha candidato
Durante i suoi due mandati alla Casa Bianca, Trump è stato proposto per il premio da almeno 15 personalità, la maggior parte provenienti dal suo staff o dalla sua parte politica. Secondo gli ammiratori, Trump è troppo modesto: sono addirittura undici i conflitti che il presidente americano avrebbe contribuito quanto meno a raffreddare. E questo «arrivando a un vero accordo, non a un semplice cessate il fuoco». Lo hanno ufficialmente candidato per l’impegno nella pace fra Russia e Ucraina la deputata repubblicana Elise Stefanik, il segretario Usa all’Interno Doug Burgum, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz e il segretario americano al Tesoro Scott Bessent. Bibi Netanyahu, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, lo premierebbe anche per «il suo sforzo nel rilascio degli ostaggi» a Gaza. La giurista israeliana Anat Alon-Beck, per il tentativo di stabilizzare il Medio Oriente. La segnalazione arriva dal premier cambogiano Hun Manet, dal capo di Stato maggiore pakistano Asim Munir, ma pure da chi ha qualche problema con i diritti umani quali il presidente azero Ilham Aliyev e quello della Repubblica democratica del Congo Félix Tshisekedi. La campagna di Trump è a strascico: a luglio il norvegese Jens Stoltenberg, l’ex segretario della Nato, mentre camminava per strada ha ricevuto una telefonata da Trump: «Mi ha detto che voleva il premio», ha poi rivelato al quotidiano Dagens Næringsliv. Ma a che punto sono le guerre che Trump sostiene d’avere concluso, e quelle in cui avrebbe svolto una mediazione decisiva?
Le 7 guerre concluse
Accordi di Abramo: dopo la pace con l’Egitto (1979) e con la Giordania (1994), dovevano essere la prima normalizzazione delle relazioni fra Israele e il mondo arabo. Firmati nel 2020 alla Casa Bianca con gli Emirati arabi, estesi poi al Bahrein, prevedono rapporti di collaborazione economico-finanziaria e d’intelligence, assieme all’applicazione della legge israeliana in Cisgiordania e all’annessione del 30% di territori palestinesi. Ad agosto di quest’anno Trump ha promesso di allargarli ad altri Paesi. In realtà, le opportunità si sono chiuse: dopo il bombardamento israeliano sul vertice di Doha e l’uccisione dei negoziatori di Hamas, gli Emirati stanno valutando se chiudere l’ambasciata a Tel Aviv e nessun governo arabo dice di volersi sedere a un negoziato con Netanyahu.
Israele-Iran: il 13 giugno Israele sferra un attacco a sorpresa in territorio iraniano. Il 22 giugno anche gli Usa lanciano bombe sui siti nucleari iraniani. Il 23 giugno, Trump scrive: «È stato pienamente concordato tra Israele e Iran che ci sarà un cessate il fuoco completo e totale. Il mondo saluterà la fine della guerra dei 12 giorni». Ma l’ayatollah Ali Khamenei, nonostante Teheran esca indebolita dai raid, parla di «vittoria decisiva» e non menziona affatto il cessate il fuoco, mentre Israele annuncia di voler colpire ancora. Non viene firmato alcun accordo di pace, né un monitoraggio del programma nucleare iraniano.
Il fronte asiatico
Thailandia e Cambogia: rivendicano da oltre un secolo le aree di alcuni templi sacri. Il 26 luglio, Trump ha scritto sui suoi social: «Chiamo il premier della Thailandia per chiedere un cessate il fuoco». Entrambi i Paesi dipendono fortemente dalle esportazioni verso gli Usa e il presidente americano ha più volte minacciato d’imporre nuovi dazi sul commercio. Il 28 luglio, dopo una settimana di combattimenti al confine e decine di morti, s’è concordata una tregua «immediata e incondizionata», e l’accordo è stato firmato in Malesia. Il premier cambogiano Hun Manet ha subito candidato Trump al Nobel. Ma Bangkok e Phnom Penh s’accusano a vicenda di violazioni continue. Ora è intervenuta la Cina a spingere per un nuovo accordo.
India-Pakistan: la guerra fra le due potenze nucleari va avanti da 78 anni, ma negli ultimi 6 si era congelata. A maggio s’è riaccesa nel Kashmir indiano. Dopo quattro giorni d’attacchi, Trump ha pubblicato un post in cui affermava che India e Pakistan avevano concordato un «cessate il fuoco totale e immediato», frutto d’una «lunga notte di colloqui mediati dagli Stati Uniti». Il capo di stato maggiore pakistano, Asim Munir, ha proposto Trump per il Nobel ed è stato invitato a pranzo alla Casa Bianca. Il premier indiano Narendra Modi ha invece accusato il presidente Usa di essersi attribuito un successo non suo: l’accordo sarebbe stato il frutto di discussioni bilaterali «secondo i canali già esistenti fra i due eserciti, con un ruolo Usa assai marginale». Queste dichiarazioni di New Delhi, assieme al rifiuto di candidare Trump al Nobel, han fatto precipitare al minimo i rapporti con Washington, proprio nelle settimane in cui Modi stringeva rapporti più stretti con Russia e Cina. Funzionari indiani hanno dichiarato al New York Times che Modi «non accetta e non accetterà mai la mediazione» americana. Sta di fatto che la Casa Bianca ha portato al 50% i dazi sull’India e ha cancellato una visita presidenziale prevista quest’autunno.
Europa dell’Est
Armenia-Azerbaigian: è la guerra per il controllo del Nagorno-Karabakh iniziata nel 1991. Le due ex repubbliche sovietiche avevano già siglato uno stop nel 2020, con la mediazione russa. A marzo 2025 concordano un testo per chiudere definitivamente le ostilità. La firma avviene l’8 agosto con una stretta di mano alla Casa Bianca: i due Paesi prevedono il riconoscimento dei confini e la rinuncia alla violenza. Trump si fa garante del mantenimento della pace, e incassa l’endorsement per il Nobel dal presidente azero e da quello armeno. Non solo. Uno dei punti centrali dell’intesa è lo sbocco al Caucaso meridionale tramite una via di collegamento di 43 km tra l’Azerbaigian e una exclave azera passando in territorio armeno. Sarà ossequiosamente chiamata Tripp, «la via di Trump per la pace e la prosperità internazionale», e verrà costruita e gestita per 99 anni da una società privata americana. Uno schiaffo a Russia, Turchia e Iran, da sempre dominatori dell’area.
Serbia-Kosovo: il 27 giugno, Trump ha detto di aver impedito lo scoppio di una grande guerra fra Serbia e Kosovo. In realtà non c’è alcuna guerra in corso, ma una pace congelata dagli accordi di Kumanovo del 1999, firmati dalla Nato. Il Kosovo s’è dichiarato indipendente nel 2008, la Serbia non l’ha mai riconosciuto e i confini continuano a essere monitorati dall’Alleanza atlantica, Italia in testa. Nel 2020, alla Casa Bianca, Trump mediò un piccolo accordo di normalizzazione economica a breve termine, chiamandolo pomposamente «pace». Ad oggi tutte le tensioni restano irrisolte.
Il fronte africano
Congo-Ruanda: sempre il27 giugno, Trump s’è dato il merito d’uno «storico accordo» di pace («lo chiameremo accordo Trump») tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda. Dopo la firma alla Casa Bianca, con la quale l’America ha ottenuto i diritti di sfruttamento delle miniere africane, il presidente congolese Félix Tshisekedi ha candidato Trump al Nobel. Tra i due Paesi, però, non c’era una guerra diretta: le ostilità erano divampate dopo che il gruppo ribelle M23, appoggiato dal Ruanda, aveva conquistato le miniere nella parte Est del Congo. Nell’agosto 2024, a Doha era già stata firmata una tregua coi miliziani, che nessuna delle parti aveva però rispettato. E anche dopo l’accordo di Washington, gli attacchi sono ripresi.
Egitto-Etiopia: fra i due paesi non c’è mai stata una guerra, ma tensioni per la diga Grand Ethiopian Renaissance Dam, che l’Etiopia ha finito di costruire quest’estate. l’Egitto sostiene che Addis Abeba ruba l’acqua del Nilo e il 29 giugno, dopo 12 anni di litigi, i due Paesi hanno rotto le relazioni diplomatiche. Trump aveva tentato di risolvere la questione nel primo mandato, senza successo. «Se fossi l’Egitto – ha detto – vorrei l’acqua del Nilo e finirei per far saltare in aria la diga». Gli etiopi non hanno gradito. Trump ha poi promesso che gli Usa avrebbero risolto la questione molto rapidamente, ma nessun accordo è mai stato raggiunto.
L’accordo non contemplato
Nel suo conteggio Trump non ha però inserito l’unico accordo che effettivamente ha siglato, quello con i Talebani in Afghanistan. Forse perché ha sempre dato la colpa a Biden dell’esito disastroso. La missione militare iniziata nel 2001, a seguito dell’attacco di Al Qaida alle torri gemelle, ha coinvolto quattro presidenti Usa. Già Obama aveva deciso un graduale ritiro entro il 2016: sul terreno erano rimasti 10mila soldati Usa per addestrare le forze afghane. Nel 2017 Trump da carta bianca ai suoi generali: nessuna data di scadenza per il ritiro. A febbraio 2020, con l’incalzare delle elezioni e la stanchezza dell’opinione pubblica per una guerra senza fine, Trump firma una resa incondizionata con due trattati: uno a Doha, che legittima politicamente i Talebani; l’altro a Kabul, per rassicurare il governo sostenuto dall’Occidente. L’impegno è di favorire la «distensione» entro 14 mesi. Nel 2021 invece i talebani disattendono l’accordo, lanciando un’offensiva su Kabul e costringendo a una precipitosa fuga i 2.500 americani rimasti. Ma ormai non è più un problema di Trump, perché il presidente in carica è Biden.
Nel suo conteggio Trump non ha però inserito l’unico accordo che effettivamente ha siglato, quello con i Talebani in Afghanistan. Forse perché ha sempre dato la colpa a Biden dell’esito disastroso.
Ucraina e Gaza
Era una promessa impossibile quella fatta in campagna elettorale sull’invasione della Russia in Ucraina: «Metterò fine a questa guerra in 24 ore». Una volta eletto, per sei mesi ha chiesto un cessate il fuoco immediato per avviare i negoziati. Dopo il vertice con Vladimir Putin in Alaska, a Ferragosto ha abbandonato la richiesta di una semplice tregua e ora sostiene una soluzione definitiva della guerra, secondo i desideri di Putin (che esige il controllo sui territori conquistati, prima di qualsiasi negoziato). Ogni tentativo di colloquio diretto fra le parti, a Istanbul, è fallito. E Trump è tornato a promettere armi a Kiev, se la Ue paga il conto. Sullo sterminio di Gaza da parte di Israele, come reazione al terribile attacco di Hamas del 7 ottobre, la posizione di Trump è sempre stata chiara. Durante il cessate il fuoco dello scorso febbraio, propose che gli Usa prendessero «il controllo» diretto della Striscia per ricostruire una «Gaza Riviera» a uso turistico e di deportare circa 2 milioni di palestinesi negli Stati vicini. Il trasferimento forzato delle popolazioni è vietato dalle convenzioni internazionali, che anche gli Usa hanno sottoscritto. Alla proposta di Trump ha aderito con entusiasmo Netanyahu. Da allora la guerra non s’è mai più fermata.
Attualmente, nel mondo ci sono 59 conflitti in corso che coinvolgono almeno 92 Paesi, con cento milioni di persone costrette a migrare e 233 mila morti solo nel 2024: il numero più alto dai tempi della Seconda guerra mondiale.
Lo scopo del Nobel
Nell’Ottocento fu il senso di colpa, per aver inventato la dinamite, che spinse lo scienziato svedese Alfred Nobel a istituire un premio per chi avesse favorito «la fraternità tra le nazioni, la riduzione degli eserciti e i congressi per la pace». Negli ultimi 20 anni, i Nobel per la Pace più «politici» sono andati a Obama «per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli» (assegnato sulla fiducia, perché poi i fatti non si dimostrarono all’altezza). Sono stati insigniti: l’Unione europea, il mediatore di pace finlandese Martti Ahtisaari, la «pacifista» presidente liberiana Ellen Sirleaf, l’organizzazione Onu contro le armi chimiche, la Rivoluzione tunisina, il presidente colombiano Juan Manuel Santos che ha fermato la guerriglia, la campagna contro il nucleare, il Programma alimentare mondiale, gli oppositori in Russia, in Bielorussia e in Iran, i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki. A giugno il presidente americano sul suo social Truth ha scritto: «Non riceverò il Nobel per la Pace qualunque cosa faccia, inclusi la Russia-Ucraina e Israele-Iran, qualunque siano questi risultati». E alla domanda se si aspetta davvero d’andare alla cerimonia di premiazione a Oslo il 10 dicembre, ha risposto: «Qualunque cosa faccia, loro non cambieranno idea… me lo merito, ma non me lo darebbero mai».
Le ultime mosse
Trump ha davvero supervisionato undici accordi di pace. Ma di questi tre si riferiscono al suo primo mandato (Afghanistan, Accordi di Abramo e Kosovo), uno non è mai stato firmato perché non c’è nessuna guerra in corso (Etiopia), due sono il rinnovo di trattati già siglati (Azerbaigian e India), altri due vengono violati a ripetizione (Thailandia e Congo) e tre (Gaza, Ucraina e Iran) riguardano guerre che non finiranno a breve. Attualmente, nel mondo ci sono 59 conflitti in corso che coinvolgono almeno 92 Paesi, con cento milioni di persone costrette a migrare e 233 mila morti solo nel 2024: il numero più alto dai tempi della Seconda guerra mondiale. Come segnale di «buona volontà», in settembre, Donald Trump ha cambiato nome al dipartimento della Difesa: ora si chiamerà dipartimento della Guerra, il nome che aveva avuto dal 1789 al 1947. E ha anche reintrodotto la pena di morte a Washington DC, abolita 50 anni fa. Chissà a chi pensava l’inventore del detto «ucciderei pur di avere il Nobel per la pace».
dataroom@corriere.it
L’hanno dato ad Obama quindi non scandalizzerebbe neanche se lo conferissero al mostro di Miluoki.
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Abbiamo un segretario di partito, ministro e vicepremier che girava con la T-shirt con il viso di Putin…non c’e’ altro da aggiungere.
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