Il centrodestra è come dissolto, incapace di una sintesi unitaria. Viceversa il centrosinistra è riuscito quasi ovunque a smentire il luogo comune della divisione

Giuseppe Conte, Elly Schlein, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli

(di Francesco Bei – repubblica.it) – Nel cammino verso le elezioni regionali, un assurdo percorso a tappe che impegnerà la politica per due mesi, conviene per un momento distogliere lo sguardo dal particolare — lo scontro sulle singole candidature — per adottare un sguardo dall’alto.

In questo “volo con il drone” sull’Italia al voto colpisce soprattutto un dato, inedito e per nulla scontato: il centrodestra, coalizione che a livello nazionale sembra (sembra) marciare compatta dietro la leadership di Giorgia Meloni, nelle sei regioni chiamate a rinnovare i consigli regionali è come dissolto, incapace di una sintesi unitaria.

Viceversa il centrosinistra, tolta Azione che ha deciso di chiamarsi fuori, è riuscito quasi ovunque a smentire il luogo comune della divisione. Non è un giudizio, è un fatto, confermato per tabulas in quasi tutte le regioni coinvolte, con la parziale eccezione della Puglia dove deve ancora chiarirsi il dilemma Vendola.

In Toscana il dem Eugenio Giani, governatore uscente, è stato riconfermato come candidato unitario anche da M5S e Avs; in Campania sta per essere ufficializzato il cinque stelle Roberto Ficocon un accordo che arriva fino a Piero De Luca, candidato alla corsa per la segreteria del Pd campano; in Calabria l’ex presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, è il prescelto per sfidare il forzista Roberto Occhiuto, mentre Matteo Ricci è da tempo in campo, con una coalizione ampia, per sfilare al meloniano Francesco Acquaroli la presidenza delle Marche.

E il centrodestra? Non ha trovato l’accordo e si divide su chi dovrà competere contro Giovanni Manildo in Veneto, non ha ancora un candidato da opporre a Roberto Fico in una regione popolosa come la Campania, non sa che pesci prendere in Puglia contro Antonio Decaro, mentre in Toscana è alle prese con un’imbarazzante vicenda tra revenge porn e massoneria. Un paradosso per una coalizione che ama descriversi sempre come granitica, cementata da anni di governo insieme (vero, ma non a livello nazionale, dove FdI è stata all’opposizione dei governi sostenuti da FI e Lega).

Si attende per questa settimana l’ennesimo vertice dei leader di maggioranza che dovrebbe sbloccare l’impasse, ma non è affatto detto che anche questa volta non finirà con un “rivediamoci presto”. Il fatto è che, al di là dei personalismi in Veneto, dello scontro interno alla Lega dove avanza l’ingombrante segretario-ombra Roberto Vannacci, all’origine della “crisi” che impedisce alla destra di mettersi d’accordo c’è un fattore potente e non contingente.

Fratelli d’Italia, la forza principale della coalizione, che ha il doppio dei consensi degli altri due messi insieme, è in forte deficit di regioni amministrate: solo Marche, Abruzzo e, parzialmente, il Lazio con l’indipendente Rocca. È naturale che voglia prendersi di più, è una potenza “revisionista”, come si definiscono le nazioni a cui sta stretto l’equilibrio fissato dai vecchi trattati.

Però, e questo è il motore che genera attrito, contemporaneamente Giorgia Meloni ha tutto l’interesse a mantenere stabile la sua coalizione a livello nazionale, evitando di infliggere umiliazioni cocenti ai suoi junior partner, in particolare a Matteo Salvini.

È proprio questa contraddizione tra una logica “revanscista” a livello locale e una logica “stabilizzatrice” a livello nazionale che produce la tensione più forte. E solo Giorgia Meloni può risolverla, accettando di far prevalere uno dei due principi. Fuor di metafora: può accettare di lasciare alla Lega il Veneto, pur di placare Salvini e concedergli di mantenere una regione chiave. Oppure può imporsi e scippare all’alleato un territorio “identitario”, esponendosi però a possibili rappresaglie sia a livello locale che, soprattutto, nazionale.

Molto dipenderà anche dal risultato della prima regione chiamata al voto. Se infatti FdI dovesse perdere nelle Marche a fine settembre, per la premier diventerà ancora più difficile rinunciare a piazzare a novembre un suo candidato nell’ex feudo di Luca Zaia.