Il governo Meloni è sempre pronto a sostenere il riarmo, ma non è interessato a dare più risorse all’istruzione, e lo dimostrano gli ultimi dati di Bilancio. Anzi, come annunciato dalla stessa premier all’evento ciellino di Rimini, il suo esecutivo vuole trovare più fondi per le scuole non statali che, difatti, in una dozzina di anni hanno ottenuto il quadruplo dei fondi a loro disposizione

(Carlo Tecce – lespresso.it) – Non è per nulla disfattismo e, per favore, non tacciateci di populismo. Così è (come appare): l’Italia investe più in armi che in scuola, recupera più soldi per le armi che per la scuola, sente più il bisogno di armi che di scuola. È un fatto acclarato, confermato da grafici, numeri, tendenze. Lo si può contestare, sminuzzare, abbellire, ma non lo si può smentire.
Quest’anno come lo scorso e, si presume, come gli altri a venire, ai parlamentari della Commissione cultura, istruzione e scienza – luoghi che dovrebbero rappresentare il nucleo dell’attività politica e invece sono degradati a periferia della stessa – verrà sottoposto il rendiconto 2024 e l’assestamento 2025 del ministero dell’Istruzione e del Merito retto dal prof. leghista Giuseppe Valditara. Quest’anno come lo scorso e, si presume, come gli altri a venire, il diagramma cartesiano che indica la spesa per la scuola rispetto al totale della spesa pubblica non farà trasecolare la maggioranza né indignare più del giusto l’opposizione e né, soprattutto, stupirà gli astanti, assuefatti: 6,56 per cento nel 2021 con il governo Draghi; 6,74 nel 2022 in condivisione fra i governi Draghi e Meloni con più mesi in capo al primo; 6,66 e 6,36 nell’ultimo biennio esclusivamente di marca governo Meloni; 6,2 stimato per il 2025 non ancora concluso. In vil denaro, considerando il rimbalzo del prodotto interno lordo dopo il tracollo con la pandemia: 55 miliardi di euro nel 2022, 56,9 miliardi nel 2023, 55,7 miliardi di euro nel 2024. Se non è un taglio, è uno stagno: fermo. Un paio di obiezioni, a questo snodo iniziale del pezzo, può sobbollire nei pressi della maggioranza: sì, però va computato il calo demografico, i bambini non nascono, interi plessi di provincia, desertificati, chiudono.
La popolazione scolastica (3-19 anni) si è asciugata di oltre mezzo milione di bambini e ragazzi in un decennio. Adesso la decrescita è inesorabile e assai veloce: 7,194 milioni con 364.069 classi a settembre 2023, 7,073 milioni con 362.115 a settembre 2024, previsti 6,9 milioni alla prossima riapertura. Riscontrato un fenomeno nazionale ormai consolidato nel tempo, cioè il calo demografico (premesso che la popolazione residente è aggrappata ai 58,9 milioni con oscillazioni contenute grazie ai migranti), è compito dei governi porre rimedio. La scuola è indubbiamente un fattore che incide sulle scelte delle coppie italiane e dunque sul calo demografico. Un esempio, che va oltre la popolazione scolastica nella definizione classica: la carenza di asili nidi. In Italia soltanto un bambino su tre ha l’opportunità di accedere a una struttura pubblica, vuol dire che soltanto una famiglia su tre ha l’opportunità di usufruire di un servizio pubblico senza rinunciare a carriere e risparmi oppure senza attingere al principale “welfare italiano”: i nonni.
La seconda obiezione che discende dalla prima: sì, però da sempre i governi non elargiscono risorse aggiuntive alla scuola e lo fanno in particolare per il calo demografico. Non è proprio vero. Se l’assunto è «meno soldi alla scuola perché ci sono meno studenti», e lo si ripete ovunque, l’assunto è scorretto. Per due motivi. Uno: la situazione generale delle scuole non è talmente eccellente da consentire risparmi mirati. Due: l’Italia è la peggiore in Europa e fra le nazioni avanzate del mondo.
La spesa per studente in rapporto alla spesa pubblica totale pro capite, secondo i calcoli dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica diretto da Carlo Cottarelli, è passata dal 49 per cento nel 2000 al 37 nel 2023. Il precipizio si spalanca con la crisi economica del 2008, seguono alti e bassi con un picco nel 2018 (governo Gentiloni), poi si va giù senza sosta. La curva in discesa è martoriata anche dai vari bonus edilizi (governo Conte II), varati nel 2020 per risvegliare il prodotto interno lordo dopo il Covid. Più semplice: la spesa pubblica totale pro capite viene drenata maggiormente dal ministero del Tesoro perché deve scontare miliardi di euro in bonus edilizi, strumento che ha attirato le critiche più feroci di gran parte di questo governo, e perciò la porzione attribuita a Istruzione o Interni o Esteri risulta più piccina. A ogni modo, in questa classifica di spesa per studente in rapporto alla spesa pubblica totale pro capite, l’Italia è ultima in Europa, preceduta di un soffio dalla Francia, ben più avanti Regno Unito, Germania e Spagna. Il terzetto è sopra il 45 per cento della spesa, l’Italia già cinque anni fa, assenti i bonus edilizi, era lontana da questo livello di benessere.
Allargando lo sguardo, e dovranno farlo anche i parlamentari della Commissione cultura, istruzione e scienza, è facile notare che persino la spesa per il ministero dell’Università e della Ricerca retto dalla forzista Anna Maria Bernini è stagnante, se non tagliata con ribassi di qualche decimale, nonostante la popolazione universitaria sia in discreto aumento e superiore ai 2 milioni di iscritti. La sintesi dell’Osservatorio è parecchio efficace: «Il confronto è impietoso per l’istruzione terziaria: l’Italia non solo è ultima tra gli Stati membri dell’Unione Europea e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), ma è anche molto distante dagli altri. Nel 2021 spendevamo per ogni studente il 16 per cento del nostro reddito pro capite, contro il 30 della Germania, il 26 della Francia e il 24 della Spagna. In Danimarca, dove l’università è gratuita, la spesa per studente era il 32 per cento del reddito pro capite, il doppio che in Italia».
Per i circa 7 milioni di studenti (3-19 anni), denunciano i sindacati scorrendo le piante organiche, a settembre spariranno 2.174 bidelli e segretari e 5.660 insegnanti come da legge di Bilancio, nel mentre il medesimo governo sta cercando di completare l’immissione in ruolo di 70.000 precari entro il 2026 con il denaro del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Quest’anno come da tradizione, diverse classi avranno il corpo docente mutilato per diverse settimane imponendo orari (e apprendimenti) ridotti.
I parlamentari della Commissione, comprensibilmente annoiati per il reiterarsi delle cifre, presto scopriranno che l’87,4 per cento dei circa 55,5 miliardi utilizzati nel 2024 è servito per gli stipendi del personale scolastico e che le altre voci sono sostanzialmente fossilizzate. Con una eccezione. La spesa per le “istituzioni scolastiche non statali”, le scuole private, ha impegnato 714 milioni di euro; erano 620 milioni due anni fa col governo Draghi, 286 milioni dodici anni fa col governo Monti. Pure a saldi (soldi) più o meno invariati, volendo, i governi di ogni colore politico e di ogni alleanza bislacca possono plasmare l’istruzione di domani. E da qualche legge di Bilancio, a passo lento e però costante, l’indicazione comune – a centrodestra e centrosinistra e anche a esecutivi tecnici – è finanziare le scuole private.
Con la scusa della “denatalità”, il calo demografico, alle politiche per l’istruzione (statale) si può togliere senza suscitare proteste, anzi è sufficiente rintuzzare con una fatidica domanda, tipica di un periodo di guerre, violenze, inflazione: a cosa servono più soldi? Risponde la deputata Irene Manzi, la responsabile scuola del Partito Democratico che ha l’agio di essere all’opposizione, ma l’obbligo di immaginarsi al governo (in epoche ingiallite, si sarebbe definita ministra ombra): «Più soldi servono ad adeguare le retribuzioni degli insegnanti, a colmare i buchi di docenti, a migliorare la didattica, a incentivare le attività, a incrementare i rientri settimanali».
Al contrario, pur richiamandosi al merito, il ministero di Valditara è abile a scansare il merito delle questioni, dilettandosi in polemiche a costo zero come il voto in condotta, il patriarcato che non esiste, l’Occidente predominante. La solita coltre di nebbia per coprire tutto e confondere tutti. I fatti resistono. E i fatti – come le tabelle dell’Osservatorio – dicono che nel mazzo dello Stato, appurato il peso dei bonus edilizi, c’è un unico ministero che si ingrossa: è il ministero della Difesa, che fa un bel salto da 29,9 miliardi di euro nel 2022 a 34 miliardi nel 2025. Certo, le minacce sono tante, il nemico è alle porte. Imparare le lingue, no? Magari aiuta.
Niente di nuovo sotto il sole, è risaputo che per i fascisti conta di più il servilismo piuttosto che la cultura.
Si è cominciato con la Moratti ministro dell’istruzione governo Berlusconi a tagliare i finanziamenti alla scuola pubblica per aumentare i finanziamenti alla scuola privata.
Del resto, basta vedere i ministri dell’attuale governo per comprendere quale sia il livello culturale sufficiente per le poltrone che contano.
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LI metteri dietro la lavagna con le orecchie d’ asino!
Daltra parte se vuoi affossare una nazione …non devi fare figli,non devi istruire, non devi assistere coloro che pagano letasse… anzi li devi penalizzare così alle prossime elezioni ,schifati, non si presenteranno alle urne.
Chiuso il cerchio l’Italia fallisce!
Grazie giovgia!
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Lo stato di torpore della stampa italiana non si smentisce neppure in questo caso.
È noto che, in seguito agli impegni assunti al recente vertice NATO, l’Italia dovrà portare la spesa per la difesa intorno al 2% del PIL.
Ora, se guardiamo ai dati ufficiali, la spesa per l’istruzione in Italia si aggira storicamente intorno al 4% del PIL, una quota inferiore alla media europea ma pur sempre circa il doppio di quanto destinato attualmente alla difesa. Le statistiche del World Bank lo confermano.
Government expenditure on education, total (% of GDP) – Italy | Data
Alla luce di questi numeri, l’articolo di Tecce è fuorviante: parla di sorpasso delle spese militari su quelle per la scuola, ma ad oggi questo semplicemente non è avvenuto. È possibile che in futuro le due voci tendano a convergere, se la spesa militare crescerà e quella educativa resterà stagnante; non possiamo escluderlo a priori, ma per ora si tratta di un’ipotesi e non di un fatto.
Resta indubbio che vi sia un trade-off fra spese per istruzione, sanità e welfare, soprattutto in un Paese dove l’evasione fiscale, puntualmente “premiata” con condoni, è ormai percepita quasi come una componente strutturale del diritto tributario. A ciò si aggiunge la nostra tradizione tutta italiana di dissipare risorse in progetti discutibili: è accaduto con il Superbonus edilizio e potrebbe ripetersi – speriamo di no – con il ponte sullo Stretto.
Vale la pena ricordare, a chi alimenta facili slogan, che “non firmare” gli impegni internazionali non è una strada percorribile: significherebbe perdere credibilità e, di conseguenza, ritrovarsi senza fondi non solo per la difesa, ma anche per sanità, istruzione e welfare.
A titolo di esempio concreto vale la pena ricordare che lo stesso Sánchez, dopo aver alzato la voce, ha poi firmato.
Per chi ha voglia approfondire un po’, segnalo un’analisi utile e ben documentata:
Europe’s difficult trade-off between military and welfare spending: the Italian case | Brookings
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Oramai sei diventato una COMICA, ZEPPELIN-70.
1- l’articolo NON dice che la scuola ha meno fondi della Difesa (da chi?). Dice che i bilanci sono stagnanti se non in leggera riduzione, mentre la Difesa aumenta di diversi miliardi, così che nel 2022 Scuola 55, 2024 55,7; Difesa 29,9, nel 2025 pari a 34 mld.
2- eccerto non si può evitare di ‘tenere fede’ ai trattati internazionali, sennò ‘perdi credibilità’. Così andiamo avanti come suggerisci te, e facciamoci ‘sta bella politica di distruzione dello stato sociale + guerra nucleare finale perché qualche venduto ‘europeo’ ha pensato alle vaccate legate al riarmo prima che a tutto il resto.
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ALESSANDRO VOLPI
Un breve ripasso. La Consob ha reso noto, nei giorni scorsi, che BlackRock ha una partecipazione superiore al 5% in Bper. Si tratta solo di una delle infinite partecipazioni che il grande fondo di gestione Usa ha in Italia. Provo a riassumerle per dare il senso del peso decisivo della società guidata da Larry Fink. BlackRock, ha il 5,12% in Unicredit, il 5,005% in Intesa, il 5,022 in Enel, il 5,78 in Prysmian, il 5,16 in Rai Way, il 10% in EI Towers, il 5% in Bpm, il 3,2% in Mps, il 2,6% in Generali, più del 5% in Terna, in Azimut, in Moncler e in Snam, il 9,2% in Fineco, il 3% in A2a, il 3% in Amplifon, il 3,7% in Italgas, il 3% in Hera, il 5% in Atalantia, il 5% in Telecom Italia, più del 3% in Leonardo, il 4,23 in Mediobanca, oltre ad una presenza “storica” in Stellantis e Mediaset. In merito a queste partecipazioni sono necessarie tre considerazioni. La prima è rappresentata dal fatto che simili quote fanno di BlackRock spesso il primo o il secondo azionista e proprio da questo rilievo deriva il fatto che BlackRock è il primo azionista della Borsa di Milano per valore delle partecipazioni possedute. Se poi a BlackRock si aggiungono le partecipazioni di Vanguard e di pochissimi altri fondi Usa si arriva al 20% della stragrande maggioranza delle società italiane quotate a Milano. La seconda considerazione si lega al fatto che BlackRock possiede queste partecipazioni attraverso fondi con cui ha raccolto il risparmio degli italiani e delle italiane. La terza considerazione è facilmente intuibile: BlackRock è decisiva in tutti i settori strategici italiani, dall’energia, alle banche, alle multiutility alla manifattura. A tal riguardo occorre aggiungere un elemento. La presenza di BlackRock in Italia non si limita certo alle parteciazioni azionarie perché la società americana è il principale gestore del risparmio italiano, con una raccolta intorno ai 170 miliardi di euro attraverso vari strumenti, fra cui stanno crescendo rapidamente gli Etf. Dunque, un unico fondo Usa controlla buona parte del risparmio italiano e delle società italiane, risultando, per molti versi, ben più decisivo delle politiche dello Stato. Ecco cosa vuol dire essere una colonia del capitalismo finanziario a stelle e strisce.
Credete che a Black Rock interessi una cippa della scuola pubblica italiana?
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Io più che altro mi chiedo che cavolo di fine hanno fatto le autorità anti-monopoli e simili.
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