
(Moni Ovadia – ilfattoquotidiano.it) – Alcuni leader occidentali in questi ultimi giorni si stanno affrettando a dichiarare che riconosceranno lo Stato di Palestina. Il nostro governo, verosimilmente, sarà fra gli ultimissimi secondo un’inveterata tradizione, temporeggiare, perché non si sa mai. Da cosa dipende questa tardiva corsa al riconoscimento virtuale di uno Stato dei palestinesi?
A mio modesto parere trattasi di puro opportunismo. Vuoi mai che l’ondata di sdegno che sta montando dal basso contro il “genocidio intenzionale” – la definizione è di Amos Goldberg, professore di storia dell’Olocausto, nel dipartimento di storia ebraica, dell’Università ebraica di Gerusalemme – perpetrato dallo Stato sionista contro il popolo palestinese travolga le loro miserabili carriere politiche.
Dietro al supposto riconoscimento si riaffacciano i consueti balbettii sui “due popoli e due Stati”. E come? Con 800 mila coloni sionisti fanatici insediati in Cisgiordania e Gaza ridotta in un cumulo di macerie? E come pensano di metterla con il Sionismo, un’ideologia, colonialista, razzista, genocidaria che si fonda sull’eccezionalismo e il suprematismo ebraico. Non ci sarà nessuna soluzione, né i due Stati né altro, finché il pensiero sionista dominerà l’orizzonte politico dello Stato di Israele, che per il momento è più opportuno definire Stato sionista o Stato terrorista.
Una delle opzioni disperate che si fanno strada è quella di scaricare tutta la responsabilità per la mancanza di una soluzione su Hamas, tutta colpa di Hamas. Ma come è nata Hamas, l’ha portata la cicogna? Chi l’ha voluta? Chi l’ha finanziata, armata? Ritengo che le risposte a queste domande creerebbero problemi notevoli per primi ai sionisti. E poi, in Cisgiordania Hamas non c’era.
Riconoscere lo Stato di Palestina significa riconoscerne la terra e i confini sulla base del diritto internazionale, ma i sionisti ne hanno fatto carne di porco con la piena complicità dei loro sodali stelle e strisce ed europei che hanno garantito loro la piena impunità. Inoltre i sionisti non hanno mai stabilito i loro confini al fine di tenersi le mani libere e fottere tutta la terra dei palestinesi con la pratica dei fatti compiuti sul territorio.
E, dulcis in fundo, chi convincerebbe 800 mila coloni sionisti, privilegiati, pasciuti, armati fino ai denti, fanaticamente convinti di avere il Santo Benendetto dalla loro parte a levare le tende dalla Samaria e Giudea senza provocare una guerra civile?
Ritengo che l’unica soluzione possibile sia quella di uno Stato laico democratico per tutti gli abitanti di quella terra con gli stessi identici diritti per i suoi cittadini.
(Marco Travaglio) – Caro Moni, pubblico il tuo appassionato intervento anche se non lo condivido in alcuni punti. A parte il giudizio sul Sionismo storico, che alla fine dell’Ottocento fu l’equivalente del nostro Risorgimento per gli ebrei della diaspora perseguitati un po’ in tutt’Europa, dalla Russia zarista alla Francia, e non ha nulla a che fare con l’attuale governo di Israele (un conto è Theodor Herzl, ma anche i politici socialisti e laici che guidarono Israele per oltre trent’anni dopo la sua nascita, un conto sono Netanyahu e i suoi macellai), e a parte la tua nota avversione per l’idea stessa dello Stato ebraico, non sono sicuro che un unico Stato dal fiume Giordano al mare Mediterraneo sia un’opzione più praticabile di quella dei due Stati. Che oggi, per ovvie ragioni, è soltanto uno slogan per sciacquare coscienze e continuare a non fare nulla per salvare i palestinesi di Gaza. Se due Stati affiancati in quel piccolo lembo di terra ti sembrano troppi, come possiamo pensare che tutto l’odio accumulato e il sangue versato fra le due comunità in tanti decenni, e ancor più nell’ultimo biennio, possa stemperarsi nella loro convivenza sotto lo stesso tetto? Comunque grazie per le tue parole: il dibattito, temo, è appena agli inizi.
Onestamente sto iniziando a propendere per l’istituzione di uno stato unico anche io. Si potrebbe fare come in Belgio (vero che i risentimenti tra le due parti erano e sono notevolmente meno incancreniti): uno stato federale con due nazioni (i fiamminghi al nord e i valloni al sud) con due lingue diverse, stazioni radio e tv diverse, scuole diverse, regole diverse, tribunali diversi, in alcuni casi addirittura leggi diverse, e le dispute tra le due parti risolte da un comitato misto (ad es. 5 ebrei e 5 palestinesi) con decisioni da prendere all’unanimità.
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Approverei la tesi di Ovadia se i protagonisti fossero autenticamente democratici e soprattutto laici. Ma , purtroppo le cose stanno in modo molto diverso .
In quanto alla posizione di Travaglio, credo che la sua sia la posizione di chi ha voluto la nascita dello stato israeliano non curandosi delle popolazioni autoctone della Palestina, giustificando il tutto con le persecuzioni che gli ebrei hanno subito durante i secoli. Ma perché dovevano essere i palestinesi a pagare per tutti ? La Germania era in primis chi doveva provvedere a riscattarsi .
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in questo blog c’è di tutto,
anche l’Omino della Valle:
non se è più ingenuo o scemo del tutto
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Sei già tornato dalla passeggiata col cane eh ciglione? Vai sul divano adesso mentecatto, se no è capace che ti pisci sulle scarpe.
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Marco Travaglio continua a dimostrare di non conoscere la storia del sionismo, di Israele e della Palestina.
[PARTE PRIMA]
Travaglio, come molti altri osservatori critici ma equilibristi, tende a distinguere nettamente tra “il buon sionismo delle origini” e la deriva attuale rappresentata dalla destra israeliana. In questa lettura, il sionismo storico – incarnato da Herzl, dai laburisti, dai leader laici e socialisti – sarebbe stato un progetto nobile, progressista, orientato alla coesistenza e alla democrazia, mentre le colpe delle politiche odierne ricadrebbero interamente sulla destra nazionalista, autoritaria, suprematista.
Ma se si guarda onestamente alla storia, questa distinzione si rivela in larghissima parte illusoria.
La realtà è che la sinistra sionista non ha mai fatto nulla di sostanzialmente diverso rispetto alla destra, se non nella forma e nei toni. Furono i socialisti dell’Agenzia Ebraica, del Fondo Nazionale Ebraico e del movimento Hebrew Labour a promuovere e organizzare, fin dal principio del Novecento, l’acquisto selettivo delle terre, l’esclusione degli arabi dal mercato del lavoro e la costruzione delle prime colonie ebraiche esclusive. La pulizia etnica del 1948 fu realizzata sotto la guida del governo socialista di Ben Gurion. Fu ancora la sinistra a imporre l’apartheid ai palestinesi in Israele fino al 1966 e poi ad occupare Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est nel 1967, in seguito alla guerra detta “dei sei giorni” che fu una guerra d’aggressione spacciata per autodifesa. Per decenni, anche sotto governi laburisti, Israele ha continuato a espandere colonie, a imporre un sistema legale di apartheid e a esercitare violenze sistematiche sulla popolazione palestinese. L’apartheid non è un’invenzione recente, né una degenerazione: è stato parte integrante del progetto sin dall’inizio. La sinistra israeliana, semmai, ha avuto una maggiore propensione a qualche gesto diplomatico di facciata, a negoziati, a “processi di pace” spesso svuotati di contenuti concreti, utilizzati più per allentare la pressione internazionale che per mutare realmente lo status quo. La destra, invece, ha semplicemente ereditato e portato a compimento, con maggiore brutalità e meno ipocrisia, quello stesso impianto coloniale. Se escludiamo il 1948 – un momento fondativo in cui la sinistra fu particolarmente spietata – si può dire che la differenza tra destra e sinistra israeliana sia più stilistica che sostanziale. Attribuire la responsabilità esclusiva alla destra significa non solo riscrivere la storia, ma anche assolvere chi ha posto le basi materiali, giuridiche e militari per il sistema attuale. Il sionismo, in tutte le sue forme dominanti, ha operato secondo una logica di esclusione, espropriazione e dominio: negare questa continuità significa chiudere gli occhi di fronte a una verità storica documentata e ineludibile.
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Marco Travaglio continua a dimostrare di non conoscere la storia del sionismo, di Israele e della Palestina.
[PARTE SECONDA]
Fin dagli scritti di Herzl, Nordau, Jabotinsky e Ben Gurion, l’obiettivo era trasformare la Palestina da terra multietnica in uno Stato ebraico, il che implicava necessariamente l’espulsione o marginalizzazione degli arabi. Come scrisse nel 1940 Yosef Weitz, direttore del Fondo Nazionale Ebraico: “Non c’è posto in questo paese per due popoli […]. L’unica soluzione è trasferire gli arabi in paesi vicini”. Egli ripeteva semplicemente l’idea che era già di Herzl, la quale non era diversa da quella che sarà poco più tardi di Jabotinsky. Theodor Herzl usava un linguaggio più moderato e diplomatico rispetto a Jabotinsky, ma entrambi condividevano una visione fondamentalmente coloniale. Herzl, nei suoi scritti privati, parla esplicitamente della necessità di trasferire gli arabi fuori dai confini del futuro Stato ebraico. Progettava colonie modello, cordoni sanitari e persino un velo discreto da gettare sulla loro espulsione, mascherandola da processo legale, economico e amministrativo, per conferirle un’apparenza di normalità e inevitabilità. Una deportazione silenziosa. E’ il classico metodo del colonialismo progressista: non espelliamo, riorganizziamo; non cacciamo, razionalizziamo; non segreghiamo, amministriamo. Jabotinsky era più brutale: scriveva apertamente della necessità di un “muro di ferro” per schiacciare ogni resistenza araba. La differenza è più nella retorica che nella logica politica di fondo. In tal senso, non è una forzatura metterli sullo stesso piano ideologico. Sono espressioni diverse dello stesso paradigma: uno più borghese e diplomatico, l’altro più nazionalista e muscolare.
L’intento colonialista e la mentalità gerarchica e razzista erano presenti fin dagli inizi, documentati da lettere, diari e discorsi pubblici. Oltre a Herzl, Nordau e Jabotinsky, anche altri leader, tra cui Ussishkin, Ben‑Yehuda, Ruppin, descrivevano senza ambiguità il progetto come una vera e propria impresa coloniale. Gli architetti del sionismo erano consapevoli e spesso non si scusavano del loro status di colonizzatori.
Negli anni Venti e Trenta molti intellettuali e leader sionisti – come Ahad Ha’am, Martin Buber, Gershom Scholem, e altri – coltivavano una visione molto diversa e fortemente critica rispetto a quella che poi ha prevalso: una convivenza basata sul rispetto reciproco, la democrazia, il pacifismo e un approccio più umano e inclusivo verso la popolazione palestinese autoctona. E che fine hanno fatto costoro, caro Travaglio? Fagocitati dal progetto coloniale, suprematista, nazionalista e segregazionista. Martin Buber fu un simbolo straordinario di quel sionismo alieno, quello che vedeva nella “terra promessa” non solo un rifugio per gli ebrei, ma un luogo di convivenza e dialogo con i palestinesi. Dopo aver creduto in questa possibilità, nel 1952 dové desistere e scrisse queste amare parole: “Soltanto una rivoluzione interiore sarà in grado di guarire il nostro popolo dalla furia omicida che lo pervade, una furia generata da un odio del tutto immotivato. Essa porterà immancabilmente al nostro completo fallimento. Solo allora sia i vecchi che i giovani si renderanno conto di quanto grande sia stata la loro responsabilità per la disgrazia che si è abbattuta sui profughi arabi, nelle cui città noi ebrei, attirati qui da lontani paesi, ci siamo stabiliti, le cui case abbiamo ereditato, sui cui campi oggi seminiamo e mietiamo, dai cui giardini e vigneti raccogliamo i frutti. Nelle loro città, di cui ci siamo impossessati, abbiamo costruito scuole e istituzioni benefiche e di preghiera, mentre continuiamo a farfugliare di essere ‘il popolo del Libro’ e ‘la luce delle nazioni'”. Un’altra delle più importanti voci del fallimentare progetto di un sionismo moderato e inclusivo fu Ahad Ha’am, il quale fu tenacemente avverso al sionismo politico e colonialista promosso da Herzl e da altri leader come Ben Gurion e denunciò l’atteggiamento sfrontato dei coloni: “Questo improvviso cambiamento ha generato in loro un impulso al dispotismo […] camminano con gli arabi con ostilità e crudeltà, invadendo ingiustamente il loro territorio”. Lui vedeva la Palestina non come una terra da conquistare, ma come un luogo dove rigenerare l’anima collettiva del popolo ebraico, senza calpestare i diritti di chi già vi abitava. La storia del conflitto arabo-sionista e israelo-palestinese passa anche per questa via: la sconfitta delle voci pacifiche e inclusive dentro il movimento sionista.
Tuttavia, quella corrente del sionismo non era emarginata per caso o per dinamiche politiche contingenti, ma perché era profondamente in contrasto con le radici più autentiche e fondanti del sionismo storico. In altre parole, quel sionismo “umanista” era quasi un corpo estraneo rispetto al progetto coloniale-nazionalista che poi ha preso il sopravvento.
Il vero sionismo, nella sua forma politica prevalente fin dall’inizio, è stato caratterizzato da una forte tensione verso l’autodeterminazione ebraica in una “terra promessa”, che inevitabilmente implicava l’esclusione, il dominio e, alla fine, la colonizzazione degli abitanti palestinesi autoctoni. Questo aspetto, pur con sfumature diverse, ha attraversato e modellato il movimento sionista più rappresentativo e infine vittorioso.
Quindi la sconfitta dei sionisti pacifici e inclusivi non è stata solo una sconfitta politica o morale, ma un esito inevitabile di un progetto che fin dalla sua origine conteneva elementi incompatibili con quella visione.
E’ stato un tentativo sincero e coraggioso, ma non poteva che finire male, proprio perché quelle idee erano troppo in conflitto con la realtà strutturale e politica del sionismo dominante. La sua parabola è commovente e tragica allo stesso tempo: un sogno di pace e giustizia che la storia, purtroppo, ha brutalmente respinto.
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Marco Travaglio continua a dimostrare di non conoscere la storia del sionismo, di Israele e della Palestina.
[PARTE TERZA]
La componente ideologica, teologica e geopolitica, di impronta suprematista e colonialista, del progetto sionista precede e in parte prescinde dalle persecuzioni antisemite, per quanto esse abbiano certamente agito come catalizzatori successivi. L’origine del progetto sionista non nasce solo dall’antisemitismo, ma da una visione coloniale e messianica già in atto nell’Ottocento. E’ vero che pogrom e persecuzioni (come quelle in Russia dopo il 1881) hanno fornito una spinta immediata alla prima aliyah, ma è riduttivo sostenere che il sionismo sia nato come puro progetto di rifugio. Già nella prima metà dell’Ottocento, ideologi e politici evangelici europei e britannici – come Lord Shaftesbury – promuovevano attivamente un ritorno degli ebrei in Terra Santa per motivi escatologici, geopolitici e coloniali. “Palestine for the Jews” è un’espressione di Lord Shaftesbury, pronunciata già negli anni Trenta dell’Ottocento. Fu lui a convincere Lord Palmerston, cognato e primo ministro britannico, a sostenere l’insediamento ebraico in Palestina e a piazzare funzionari britannici filosionisti e antiarabi, come William Young, nel Consolato di Gerusalemme.
Il sionismo ebraico “modernista” nasce dentro questo orizzonte coloniale. La componente di autodeterminazione ebraica si sviluppa a partire da metà Ottocento (con movimenti come Hovevei Zion) all’interno di questo clima già preparato da ideologi e politici europei cristiani, che vedevano il ritorno degli ebrei come utile tanto al disegno divino quanto a quello imperiale. Già nel 1870 nasce Mikveh Israel, la prima scuola agricola in Palestina, fondata da Charles Netter (dell’Alliance Israélite Universelle) con fondi europei – undici anni prima dei pogrom del 1881. Il protosionismo ebraico di Zvi Hirsch Kalischer e Yehuda Alkalai si sviluppa negli anni ’50 e ’60 dell’Ottocento, ben prima della prima aliyah, e con una chiara visione di redenzione nazionale territoriale, più messianica che difensiva.
Il pogrom del 1881 fu un potente catalizzatore, ma non la causa originaria. L’idea di tornare a Sion, rendendola patria etnica esclusiva, non fu una reazione disperata, bensì una costruzione ideologica a lungo coltivata, con elementi di restaurazione teologica (religiosa o laica), colonialismo europeo (terra, civilizzazione, esclusione dei nativi), ma anche strumentalizzazione dell’antisemitismo da parte dei leader per legittimare un progetto già in atto. Anche i diari e le lettere dei primi pionieri (come quelli della Petah Tikva o della colonia Rishon LeZion) documentano un atteggiamento gerarchico e separazionista verso gli arabi locali, già negli anni ’70–’80 dell’Ottocento, ben prima della nascita del sionismo politico di Herzl (1897).
Il sionismo, quindi, non nacque solo, né principalmente, come risposta all’antisemitismo, ma come progetto coloniale e nazionalista già formulato prima delle ondate di pogrom, sostenuto da interessi teologici ed espansionistici europei. Tant’è vero, fra l’altro, che all’epoca il sionismo era largamente minoritario e fortemente avversato da gran parte del mondo ebraico, a prescindere da discriminazioni e persecuzioni. Le persecuzioni ne accelerarono l’attuazione successivamente, ma la struttura ideologica era già pronta da decenni. Ignorarlo significa rimuovere il contesto storico che ha reso possibile l’oppressione attuale. Nell’Ottocento, e nonostante le angherie subite, il panorama ebraico europeo era dominato da correnti assai diverse dal sionismo e spesso contrapposte radicalmente. In Europa orientale, i movimenti socialista e comunista, fortemente assimilazionisti, spingevano per l’integrazione degli ebrei nelle società nazionali, nella convinzione che l’agognato sovvertimento del capitalismo avrebbe prodotto una società senza più classi né gerarchie etniche, una società di uguali con pari diritti; mentre in Europa occidentale prevaleva il liberalismo democratico con simili aspirazioni, ma con il sogno di una società democratica nella quale gli ebrei, ormai assimilati, potessero godere degli stessi diritti di tutti. Contrapposti a queste correnti erano gli ortodossi, rigorosi custodi della tradizione religiosa e culturale, che rifiutavano l’assimilazione e si opponevano con fermezza al sionismo. Per molti ortodossi, soprattutto nelle comunità storiche di Palestina come Gerusalemme, Safed, Tiberiade e Hebron, il sionismo rappresentava un insulto a Dio: il solo pensare che l’uomo potesse restaurare la presenza ebraica a Sion prima dell’avvento del Messia era un’idea intollerabile e profondamente blasfema. Inoltre, per molti ortodossi, ancora oggi, non solo il ritorno a Sion prima della venuta del Messia è blasfemo, ma Sion stessa non è necessariamente intesa come un luogo fisico, bensì come una realtà spirituale e messianica.
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Hai saltato la seconda parte, comunque molto interessante.
Aggiungo che Ben Gvir, quella specie di pazzo esaltato che mi farebbe paura incontrare da solo, andando sul Monte del Tempio, per la legge ebraica, non quella civile israeliana, quella religiosa ebraica, ha compiuto un vero e proprio sacrilegio: a parte il Sommo Sacerdote (che non esiste più) nessuno può salire sul Monte del Tempio perchè si corre il rischio di contaminare il Sancta Sanctorum di cui non si conosce più l’esatta collocazione; ecco perchè i rabbini ortodossi vietano ai loro discepoli di salire sul Monte del Tempio.
Aggiungo un’altra cosa: io conosco abbastanza bene la società israeliana, ho perso il conto delle volte che ci sono stato. Due mie carissime amiche sono di Haifa, sono stato ai loro matrimoni, mi hanno invitato ai brit milah dei figli (e ad uno ho avuto l’onore di essere il kvater del bambino), e vi dico che c’è un abisso tra la società israeliana e i coloni negli insediamenti nella West Bank. Ho conosciuto anche molti di loro e non esito a dirvi che è gente che mi fa spavento, e gran parte della stessa società israeliana li guarda con disistima; e la cosa è reciproca: molti coloni sono talmente fanatici che hanno in odio perfino i loro stessi connazionali nelle città israeliane, li considerano quasi infedeli, non so come dirlo.
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La seconda parte manca perché “deve ancora venire moderato”. C’è anche una quarta e ultima parte.
Riguardo il tuo commento, sono ovviamente d’accordo che i coloni dei territori occupati, in particolare quelli più radicalizzati, rappresentano una componente estrema del progetto sionista contemporaneo, però è tutt’altro che marginale. Sono animati da una visione messianica, etnicista e ultranazionalista, che non solo li pone in conflitto con i palestinesi, ma spesso anche con gli ebrei laici o liberali che vivono nelle città israeliane, come giustamente ricordi tu. E la loro ideologia non è più un’anomalia: è ormai parte integrante del potere politico, in particolare grazie all’alleanza tra sionismo religioso e destra populista, ben rappresentata dai governi Netanyahu e dagli attuali equilibri parlamentari.
Tuttavia, in Israele non esiste solo una frattura tra coloni e cittadini, ma molteplici fratture dentro la stessa società ebraica israeliana. I mizrahì, i sefarditi, i beta israel, bene israel, cochin, bukhariani, gerim, e altri gruppi non aschenaziti, sono spesso cittadini di serie di status inferiore. Discriminati nei quartieri, nelle scuole, nell’accesso al potere e alla rappresentanza, trattati con sospetto e paternalismo. E’ un dato strutturale, che affonda le radici nel progetto sionista originario, costruito da élite europee, laiche e aschenazite, che hanno da sempre imposto un modello di identità nazionale esclusivo.
In questo senso, la frammentazione sociale non è una conseguenza accidentale, ma un ingrediente funzionale al mantenimento di un ordine interno basato su gerarchie etniche, religiose e politiche. Il fatto che l’apparato statale – esercito, giustizia, polizia – garantisca protezione legale e militare ai coloni, pur essendo formalmente parte di uno Stato “democratico” (in realtà una Herrenvolk democracy, cioè un regime etno-stratificato in cui le istituzioni democratiche sono riservate al gruppo etnico dominante), conferma che la colonizzazione non è una deviazione, ma una politica di Stato. E’ qui che l’illusione della “sinistra buona” crolla definitivamente: perché anche i governi laburisti hanno storicamente sostenuto la colonizzazione, in forma più soft, ma altrettanto efficace.
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Le altre comunità che hai citato le conosco poco; conosco abbastanza bene gli ebrei sefarditi e i mizrahì (a proposito, sbaglio o l’assassino di Rabin era proprio un mizarhì? Se non ricordo male era di famiglia yemenita), e devo dire che sì, mi è capitato di vedere una certa diffidenza nei loro confronti, soprattutto verso i mizarhì, considerata gente antiquata, bigotta, ma più che altro ho avuto l’impressione che sia una roba tipo come in Italia dove alcuni del nord danno dei terroni a quelli del sud. Cioè voglio dire, una vera e propria ostracizzazione tipo quella che c’era verso i neri negli USA negli anni 60 no, non l’ho notata, ecco.
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Sì, hai ragione sull’assassino di Rabin, Yigal Amir è un mizrahì di origine yemenita. Questo non è irrilevante nel contesto delle dinamiche sociali intra-ebraiche israeliane: Amir proveniva da un ambiente religioso-nazionalista molto conservatore e risentiva anche, culturalmente, di quel senso di marginalizzazione che molti mizrahì hanno vissuto, soprattutto nei primi decenni dello Stato di Israele.
Hai anche ragione quando dici che non si tratta dello stesso tipo di segregazione violenta e sistematica come quella contro i neri negli USA degli anni ’60. Tuttavia, in Israele gli ashkenaziti detengono da sempre il potere politico, culturale e istituzionale, e questo ha comportato una discriminazione sistemica e culturale verso sefarditi, mizrahì, e altri gruppi, con quartieri separati e scuole inferiori per sefarditi e mizrahì negli anni ’50-’70, rimozione della lingua e cultura arabe anche tra ebrei arabi, come ebrei iracheni o yemeniti, casi documentati di abusi (come il noto scandalo dei bambini yemeniti scomparsi, in cui si sospetta che neonati mizrahì siano stati sottratti alle famiglie e dati in adozione a famiglie ashkenazite), minore rappresentanza nei settori chiave dello Stato (media, università, alta burocrazia), ecc.
Come hai notato tu stesso, i mizrahì (soprattutto religiosi e provenienti da aree periferiche) sono spesso percepiti come retrogradi, ignoranti e superstiziosi. E anche se oggi le cose sono un po’ cambiate (taluni sefarditi e mizrahì hanno scalato posizioni importanti) gli effetti storici di quella marginalizzazione sono ancora visibili, ad esempio nella distribuzione della povertà e del disagio sociale (più alta tra i mizrahì), nella geografia politica (gran parte dell’elettorato del Likud e dei partiti religiosi proviene da queste comunità), in parte per reazione all’élite ashkenazita progressista, nonché nell’identità culturale ancora subalterna rispetto al modello eurocentrico imposto dallo Stato fin dalla sua nascita.
La discriminazione diventa ancora più marcata per altri gruppi ebraici, spesso percepiti come ancora più periferici, impuri o culturalmente estranei all’identità ebraico-sionista dominante modellata sugli standard ashkenaziti. Accolti per ragioni politiche come “fratelli”, sono stati subito ghettizzati, trattati come inferiori, con episodi documentati di rifiuto di donazioni di sangue perché considerato impuro, discriminazioni scolastiche, abitative e lavorative, emarginazione culturale ed economica, abusi della polizia, sterilizzazioni forzate con il farmaco Depo-Provera a molte donne etiopi, ambiguità sulla legge del ritorno.
Non si tratta quindi di apartheid tra ebrei, ma di una stratificazione sociale e culturale profonda e venefica, che ha avuto e ha tutt’oggi conseguenze concrete. E’ un conflitto meno visibile e meno cruento del conflitto israelo-palestinese, ma molto presente nella realtà israeliana.
Non è comunque da trascurare che fin dalla nascita di Israele l’establishment ashkenazita ha attuato un progetto di israelizzazione forzata degli ebrei provenienti dai paesi arabi e musulmani. Molti ebrei mizrahì arrivarono in Israele parlando arabo come lingua madre, con usanze, musiche, cucine e mentalità fortemente radicate nel mondo arabo. Il nuovo Stato, però, considerava l’arabità come un pericolo identitario, perciò fu avviato un processo di indottrinamento e dearabizzazione: l’arabo venne represso come lingua interna anche tra ebrei e ogni espressione culturale legata al mondo arabo fu ridicolizzata, scoraggiata o completamente vietata. Molti giovani mizrahì, per integrarsi e diventare “veri israeliani”, furono educati a rinnegare la propria origine araba, spesso in modo traumatico. In questo contesto, il distacco dalla propria cultura fu accompagnato da un’educazione all’ostilità verso l’arabo, che ora veniva identificato esclusivamente come nemico. In termini psicologici e sociologici, si può parlare di auto-razzializzazione, o identificazione con l’aggressore: alcuni gruppi mizrahì hanno finito per assorbire l’ideologia e il pregiudizio ashkenazita nei confronti degli arabi, pur condividendone in origine lingua e cultura, hanno finito cioè per interiorizzazione l’odio verso ciò che essi stessi erano e proiettarlo verso tutti gli arabi. Non è un caso che molti mizrahì oggi votino per i partiti più nazionalisti e anti-arabi, come il Likud o Shas. Questo viene letto da vari studiosi come una reazione identitaria a decenni di esclusione culturale e di subordinazione sociale. Alcuni leader politici (come Netanyahu) hanno strumentalizzato il risentimento dei mizrahì contro l’élite ashkenazita “liberal”, promuovendo un discorso etnico-nazionalista che fa leva su ferite mai sanate. Ella Shohat, Smadar Lavie, Sami Shalom Chetrit e altri intellettuali mizrahì denunciano da anni la cancellazione dell’identità araba degli ebrei orientali in Israele e il razzismo culturale ashkenazita. Giusto il mese scorso ho finito di leggere un breve libro di Shohat, di cui esiste anche la traduzione italiana: “Le vittime ebree del sionismo”. Il documentario “Forget Baghdad”, del 2002, esplora l’identità degli ebrei iracheni costretti a diventare israeliani rinnegando se stessi.
Israele si presenta come uno Stato “per tutti gli ebrei”, ma la realtà è che non tutti gli ebrei sono trattati allo stesso modo, e l’ebraicità viene filtrata attraverso un’ottica etnico-culturale ashkenazita che tende a respingere ciò che è “troppo arabo”, “troppo africano”, “troppo asiatico”, o “troppo convertito”.
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Concordo e confermo:in più aggiungo,nella mia unica esperienza( 2 settimane una 10anni fa) ho visto in certi quartieri( ad esempio tra Jaffa e sud tel aviv) vivere d’amore e d’accordo isrealiani e arabisraeliani(palestinesi), con molti negozietti di alimentari arabi frequentatissimi da israeliani e viceversa.
Dopo aver attraversato il muro, invece vi è la vergogna dell’umanità.
La questione(in israele,invece su gaza non si possono avere dubbi) è molto complicata, e vedendola coi propri occhi sul posto si percepisce in un attimo che è diversa da come viene raccontata da ambo le parti qui in Europa.Mi sto sputando in faccia perchè ho usato parole che già sono uscite dalla bocca di quel babbeo di Calenda, ma purtroppo in questa situazione è così.
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Israele è lacerata da una contraddizione tra il suo autodefinirsi “democrazia” e la realtà di un sistema giuridico e sociale fortemente gerarchico e discriminatorio. Questa realtà viene sistematicamente mascherata e mistificata dalla narrazione dominante in Occidente, che continua a presentare Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, oscurando le evidenze di un regime che pratica, anche sul piano normativo, discriminazioni sistemiche.
Come ho scritto in un altro commento, Israele funziona come una democrazia solo per una parte della sua popolazione, in particolare per gli ebrei ashkenaziti (discendenti delle comunità ebraiche europee), che costituiscono storicamente il gruppo dominante, sia sul piano politico che economico e culturale. Sono stati loro a plasmare le istituzioni statali, a guidare il progetto sionista e a monopolizzare i centri decisionali. Accanto agli ashkenaziti, ci sono altri gruppi ebraici discriminati sistematicamente, anche se cittadini a tutti gli effetti: mizrahì, sefarditi, cochin, bene israel, beta israel, curdi, bukhariani, gerim, caraiti, ecc. Questi gruppi – alcuni dei quali negli ultimi decenni si sono integrati un po’ meglio nel sistema – hanno spesso subito esclusione culturale, discriminazione economica, segregazione scolastica e razzismo quotidiano. Basti pensare ai casi di sterilizzazioni forzate, come quelle praticate su donne etiopi negli anni Duemila, o ai quartieri-ghetto in cui vengono spesso insediati gruppi mizrahì.
E poi ci sono i palestinesi cittadini di Israele, i quali, pur avendo formalmente la cittadinanza israeliana, sono soggetti a un regime legale separato e discriminatorio. L’organizzazione Adalah elenca 70 leggi israeliane che discriminano apertamente i cittadini palestinesi: https://www.adalah.org/en/law/index . Queste leggi limitano l’accesso alla terra, la pianificazione urbanistica, i finanziamenti per l’istruzione, i diritti politici, la libertà di espressione, il diritto alla residenza e alla cittadinanza per i coniugi palestinesi, e altro ancora. Inoltre, la Legge Fondamentale del 2018 (Israele Stato-nazione del popolo ebraico) ha sancito a livello costituzionale che solo il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione nello Stato di Israele, relegando ufficialmente i cittadini non ebrei a una posizione subordinata.
Quindi non si tratta solo di razzismo sociale o culturale, come si può trovare anche in Italia, in Francia o negli Stati Uniti ancora oggi, ma di una discriminazione giuridica ben strutturata e codificata. La differenza è sostanziale: non è un problema solo “dal basso”, ma un progetto “dall’alto”, sostenuto da leggi, tribunali, burocrazia e politiche pubbliche.
La presenza di rapporti personali positivi tra individui di gruppi diversi (p.e. un ashkenazita e un palestinese) non elimina né scalfisce la realtà sistemica. La struttura di dominio rimane, anche se a livello umano possono presentarsi eccezioni. E’ lo stesso principio per cui un singolo caso di integrazione non può essere usato per negare il razzismo istituzionale.
Israele, insomma, si presenta come una democrazia, ma in realtà opera secondo una logica etnocratica, in cui la cittadinanza non garantisce piena uguaglianza, e dove la legge stessa stabilisce una gerarchia tra cittadini in base all’origine etnica e religiosa. Questo non è un semplice fallimento morale o culturale, ma un progetto politico e giuridico coerente con l’impianto ideologico sionista nella sua forma dominante.
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E quindi? Normalmente la sicurezza nell’esprimere determinate parole e nel trarne banali conseguenze cela dei pregiudizi su cui poggiare sillogismi che scoprono l’acqua calda e insicurezza nel capire fino in fondo le parole dell’interlocutore( io ,in questo caso) ma la voglia di sentenziare lo stesso, capisco che è grande.
Grazie per aver condiviso la sua erudizione, ma nulla di nuovo sotto il sole dal mio punto di osservazione.
Sono solito documentarmi di mia sponte prima di intraprendere un viaggio solitario … e sono cose che ovviamente già sapevo anche se in maniera non così approfondita, solo per il fatto che il motivo del mio viaggio non era legato a scoprire realtà politiche, storiche o religiose… per me alquanto irrilevanti se analizzate con sovrastrutture di analisi tardo ottocentesche,che vengono usate tutt’oggi…e purtroppo lei conferma il mio pessimismo.
L’aspetto SOCIALE derivante dal coglierne pattern filosofici spinoziani visti “sive natura” o sub specie aeternitatis era ed è il mio focus principale, e credo che converga con quello del dotto Moni Ovadia.
Mi piace partire dal basso per provare costruire qualcosa, senza partire con certi preconcetti pur veri e reali che siano:quando viaggio il mio zaino è già pieno fino all’orlo e non voglio partire carico anche nella mente.
E normalmente per fare una circonferenza utilizzo il compasso (cerebrum) e null’altro. Ma non ho nulla da obbiettare con chi preferisce tenere sulla scrivania anche il goniometro,la calcolatrice,il righello,l’evidenziatore, il pantografo convinto che possano servigli per fare un cerchio.
Guardando avanti e non indietro: la politica cambia… come cambia il soffio del vento;i rapporti umani(sociali), se sono compromessi, hanno bisogno di un bel po’ più di tempo.
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Il mio intervento non voleva essere una replica critica né una contestazione della tua esperienza. Al contrario, avevo apprezzato il tuo racconto e la tua esperienza diretta, che offre uno sguardo umano e concreto su una realtà tanto complessa. Il mio intento era solo quello di affiancare a quel livello di osservazione personale un altro tipo di lettura, più strutturale, che riguarda le dinamiche istituzionali e le gerarchie interne che caratterizzano lo Stato di Israele. Non volevo negare il valore della tua esperienza, né oppormi al tuo approccio. Semplicemente, il tuo intervento mi ha offerto lo spunto per condividere alcune riflessioni che porto avanti da tempo e che ritenevo potessero ampliare il discorso. L’intenzione era quella di contribuire, non di contrappormi.
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Bene, vuol dire che ci siano vicendevolmente fraintesi.
Buona giornata( la mia non tanto visto che è la seconda che passo quasi totalmente su un treno italico,e non perchè sto andando in vacanza,sigh!)
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Ciao, caro Carlgen…bentornato😘❤️
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Ciao Anail come va? Settimana particolare,la mia, di eccezioni alla regola . Mi sono dato come regola(da infrangere solo in casi particolari) il discutere (se è permesso o me lo permettono) di argomenti preferibilmente offtopic(lontani dalle polemiche e dalle incazzature passate che durano per fortuna solo qualche mezz’ora).Con te sarà sempre molto piacevole da parte mia, dialogare “about” i tuoi fiori all’occhiello, tipo,ad esempio (e non solo) la tua particolare sensibilità a cogliere sfumature semantiche nei testi .Un abbraccio e un po’ di invidia, per la tua Sardegna…
ps: a proposito come va la Todde? Ho visto che è uscita bene dalla questione giudiziaria e che sta tenendo a bada i piddini della giunta con il bastone e la carota.Sbaglio? Illuminami.
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Marco Travaglio continua a dimostrare di non conoscere la storia del sionismo, di Israele e della Palestina.
[PARTE QUARTA E ULTIMA]
Travaglio, come tanti, non riesce a comprendere Israele e il progetto sionista perché continua a confondere sionismo e Israele come se fossero la stessa cosa, come se l’esistenza dello Stato dipendesse necessariamente dall’ideologia che l’ha fondato. Ma non è così: il sionismo è un’ideologia, Israele è un’entità giuridica sovrana. Fondere le due dimensioni è un errore che impedisce qualsiasi evoluzione reale.
Il sionismo attribuisce allo Stato una dimensione metafisica (religiosa o laica), e quando un progetto politico viene investito di significati metafisici, e diventa veicolo di verità assolute, destini storici e identità sacralizzate, la possibilità di compromesso, di pluralismo, di giustizia, si riduce al nulla. Nel caso del sionismo – soprattutto nelle sue versioni più ideologiche e religiose, ma anche in quelle più laiche – lo Stato di Israele non è solo uno strumento politico, ma una realizzazione storica del “ritorno”, una missione escatologica, un’entità quasi redentrice. Lo Stato non è uno dei tanti, ma è “lo Stato del popolo ebraico”, del “popolo eletto”, con tutto il peso storico, biblico e messianico che ciò comporta. E in questo contesto, parlare di uguaglianza dei cittadini, di neutralità dello Stato, o anche solo di coabitazione democratica con un altro popolo, diventa una bestemmia. Perché chi pretende l’assoluto, non tollera le differenze. E chi vive di metafisica politica, tende sempre, prima o poi, a passare attraverso il fuoco. La storia del Novecento dovrebbe avercelo insegnato: tutte le volte in cui un popolo si sente portatore di un mandato superiore e la politica si fa metafisica, la protervia e la violenza diventano inevitabili e senza limiti. Perché non è più questione di interesse o di diritto, ma di identità assoluta e non negoziabile. Il problema del sionismo non è quindi solo politico, ma ontologico: si fonda sull’idea che esista un diritto sacro, esclusivo, e quindi incompatibile con la logica della cittadinanza condivisa.
Atteso che l’idea di smantellare lo Stato di Israele per restituire integralmente la Palestina alla sua popolazione autoctona appartiene più al regno dell’utopia che a quello delle possibilità storiche, resta da chiedersi fino a che punto la creazione dello Stato ebraico secondo il paradigma sionista sia da considerarsi un successo. In altre parole, il modello di uno Stato militarizzato nella “terra promessa” ha davvero rappresentato un progresso per il destino collettivo del popolo ebraico? Israele nasce, almeno in parte, con l’obiettivo dichiarato di mettere fine alla vulnerabilità storica del popolo ebraico, offrendo un luogo di autodeterminazione e protezione. Ma la sua realizzazione concreta, in termini esclusivamente etnico-nazionalisti e attraverso una politica coloniale, ha prodotto in realtà l’effetto opposto: un eterno stato di guerra, assedio e alienazione. La paura strutturale, il trauma dell’Olocausto continuamente riattivato e interiorizzato come elemento identitario, la condizione di sospetto permanente verso l’altro – soprattutto il palestinese – hanno prodotto una società insicura, iper-armata e soffocata da una tensione costante. Non è una casa, Israele, è una trincea.
Nurit Peled-Elhanan, fra gli altri, ha ben mostrato come la società israeliana costruisca se stessa sul mito della vittima perpetua e della minaccia esistenziale costante. E’ un mito che giustifica la violenza, normalizza l’occupazione e alimenta una pedagogia dell’odio che inizia già nei libri di scuola. Nel lungo termine, questo modello non protegge, ma corrode dall’interno: disumanizza l’oppressore stesso e incatena psicologicamente chi vive nella paura di essere aggredito. Non è un modo sano di vivere. Non è emancipazione, è prigionia sotto un altro nome.
L’aspetto più drammatico, chiaramente, è che il progetto israeliano si è realizzato – e continua a sostenersi – sull’oppressione di un altro popolo, quello nativo. Tale asimmetria morale e storica è il cuore del problema. Uno Stato che si fonda sulla negazione dell’altro non può essere pienamente legittimo sul piano morale, né per se stesso, né per il mondo.
Più che un rifugio, Israele è diventato una prigione ideologica e militare, tanto per chi lo vive da dentro quanto per chi ne è vittima da fuori. Il trauma ebraico non è stato guarito, ma armato. E questo, anziché risolvere il problema della sicurezza, lo perpetua in forme nuove e forse ancor più devastanti. Il vero fallimento, allora, non è solo politico o storico, ma morale. E’ la trasformazione del trauma in potere, della memoria in giustificazione, dell’identità in prigione. E’ aver scelto, per reagire al dolore subìto, di infliggerne a propria volta – e così spezzare anche la propria umanità. Non si è costruita una casa: si è costruita una fortezza che trema ogni notte al rumore del vento.
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E questo mentre in Italia abbiamo Romeo (FdI) che propone una legge contro l’antisemitismo, ovvero di fatto chi critica Israele.
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E’ una legge del caxxo.
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Risposte rapide a chi definisce l’inferno zionista una democrazia.
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cmq è vero, Travaglio proprio non ci arriva.
A parte il giudizio sul Sionismo storico, che alla fine dell’Ottocento fu l’equivalente del nostro Risorgimento per gli ebrei della diaspora perseguitati un po’ in tutt’Europa, dalla Russia zarista alla Francia, e non ha nulla a che fare con l’attuale governo di Israele (un conto è Theodor Herzl, ma anche i politici socialisti e laici che guidarono Israele per oltre trent’anni dopo la sua nascita, un conto sono Netanyahu e i suoi macellai)
Possibile che non abbia mai sentito parlare dei crimini di Begin? Della pulizia etnica ordinata da Ben Gurion con la distruzione di 500 villaggi?
Delle rivolte palestinesi già tra gli anni ’20 e sopratutto, tardi anni ’30?
Impossibile, in effetti.
Allora a cosa si deve questa distinzione?
Quando c’é stata la democrazia da quelle parti?
Ben Gurion e Begin? Irgun e Stern erano organizzazioni non terroriste?
Golda Meir che negava esistesse il concetto stesso di Palestina (che invece era citato da Hertlz?)
Il furto di 500 kg di uranio arricchito da uno stabilimento USA negli anni ’50-’60?
La corruzione di Truman nel 1948 con una valigetta con milioni di dollari?
L’attacco all’USS Liberty?
La detenzione nelle carceri israeliane di 50.000 palestinesi dove è normale tortura e persino violenze sessuali?
Sharon che invase (tra le altre cose) il Libano, e poi passeggiò sulla spianata delle Moschee dando origine alla 2a intifada?
Dove è mai stato ‘risorgimentale’ il progetto zionista?
Nel NOSTRO risorgimento gli uomini erano uguali, non un ‘popolo senza terra per una terra senza popolo’.
Travaglio può solo sognarsi di saperne quanto Ovadia di questi argomenti.
Anche se su di una cosa almeno ha ragione: se la soluzione dei 2 stati è ridicola attualmente, non meno è infattibile uno stato solo dove vi sono due popoli così nemici tra di loro.
Che poi tanto dei palestinesi non importa a nessuno.
Israele fa affari con quasi tutti, inclusa l’India (altro che BRICS) e i gazawi non hanno niente da offrire in concorrenza.
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Per una volta sono d’accordo con te.
Travaglio non ci arriva perchè, già per chi studia queste cose di professione, è estremamente difficile mettere in fila tutti questi eventi e queste nozioni.
Figuriamoci per chi si è sempre occupato prevalentemente di tutt’altro ed ha anche numerosi altri impegni che gli impediscono di potersi dedicare ad una ricerca a 360 gradi sull’argomento, prima di scrivere di determinati temi.
Infine, la sua “prospettiva” su Israele è mutata solo recentemente…
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Hai perfettamente ragione. Il sionismo storico, nella sua forma dominante, non è un’ideologia universalista ma particolarista, fondata su una gerarchia etnica (l’esatto contrario, peraltro, della tradizione ebraica della diaspora). A differenza del Risorgimento italiano, che nei suoi ideali puntava all’uguaglianza e all’inclusione nazionale, il sionismo ha promosso un colonialismo insediativo, con l’arrivo di popolazioni ebraiche europee, il cui legame con la Palestina era più mitico e simbolico che storico e geografico. Non si trattò di una “migrazione di ritorno”, ma di una colonizzazione che portò all’espropriazione della terra e all’espulsione della popolazione palestinese. Il progetto sionista ha costruito un sistema basato su esclusione etnica e suprematismo, in cui i pieni diritti sono riservati all’élite ebraica europea, mentre gli altri vengono emarginati e privati di cittadinanza reale.
Paragonarlo al Risorgimento italiano non è solo sbagliato: è una mistificazione che rimuove la natura coloniale e razziale di quel progetto.
Ma chi glielo spiega a Marco Travaglio? Temo che continuerà imperterrito per la sua strada.
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Sulla questione dei due Stati o del singolo Stato, io inclino a pensarla come Ovadia.
Riguardo la soluzione a due Stati, non c’è alcun dubbio che sia ridicola. Parlarne ancora oggi è, nei fatti, una copertura diplomatica per mantenere lo status quo. Israele ha smantellato sistematicamente ogni possibilità reale di uno Stato palestinese: colonie, checkpoint, muri, frammentazione territoriale, gerarchia legale, giuridica e militare. Non esiste alcun progetto concreto che contempli uno Stato palestinese sovrano, con controllo delle proprie frontiere, esercito, spazio aereo e politica economica.
Sostenere invece un singolo Stato democratico e multietnico è oggi l’unica soluzione coerente, a mio avviso, con i principi di giustizia e diritti umani, se si vuole davvero superare il conflitto e non solo “gestirlo”. Certo, è una prospettiva molto lontana oggi, e non a motivo di un presunto odio ancestrale, ma perché il sistema attuale è fondato sull’ineguaglianza e sull’esclusione strutturale. Proprio per questo, però, non è impossibile da rovesciare, perché non è un fenomeno eterno. L’odio fra i due popoli non è atavico né biologico: è storicamente costruito, alimentato da decenni di violenza, propaganda, segregazione, vendetta, umiliazione. Ma dove c’è costruzione, può esserci anche decostruzione.
E non è solo una speranza astratta: esistono già esperienze concrete di convivenza e solidarietà tra ebrei israeliani e palestinesi, seppure ancora marginali o isolate. Il romanzo di Colum McCann “Apeirogon” racconta la storia vera di Rami Elhanan (marito di Nurit Peled-Elhanan) e Bassam Aramin, entrambi padri di figlie morte a causa dell’occupazione israeliana, che hanno scelto di lavorare insieme per la pace. Loro sono una prova vivente che la riconciliazione è possibile, perfino dentro un sistema profondamente corrotto e ingiusto.
Ma il primo passo spetta a chi detiene il potere, cioè ad Israele. Non si può chiedere a chi è oppresso di pacificarsi con chi lo opprime, senza che quest’ultimo demolisca il sistema di oppressione che ha costruito. Fino a quando Israele manterrà l’occupazione militare, il regime di apartheid, le colonie illegali, l’assedio a Gaza e il rifiuto del diritto al ritorno, non potrà esserci alcuna pace vera. Nessuna convivenza può nascere sotto il ricatto dell’umiliazione permanente.
Sarò uno sciocco sognatore, non so, ma io credo davvero che l’idea di una sola Palestina/Israele, in cui entrambi i popoli vivano insieme come cittadini uguali in diritti e dignità, non sia una fantasia ingenua né un sogno irrealizzabile, ma una possibilità concreta, radicata nel desiderio e nell’animo di molti. Esiste già nelle esperienze vere – spesso ignorate o silenziate – di cooperazione, affetto, solidarietà, perfino amicizia profonda, tra donne e uomini appartenenti ai due popoli. Esiste nel coraggio di chi ha perso tutto, ma ha scelto la strada del dialogo. Esiste nelle voci che rifiutano di odiare, nonostante le ferite. Questa prospettiva vive già nei gesti quotidiani di chi, pur tra mille ostacoli, riconosce nell’altro non un nemico eterno, ma un essere umano uguale a sé. Si manifesta nelle voci coraggiose e nelle azioni concrete di organizzazioni come B’Tselem e Physicians for Human Rights, che documentano le ingiustizie e difendono i diritti umani sul campo, senza compromessi. Vive anche nella resistenza etica e politica degli ebrei antisionisti all’interno di Israele: una minoranza spesso marginalizzata, ma profondamente determinata a mettere in discussione il sistema di dominio e a costruire un futuro di pace basato sulla giustizia e l’uguaglianza. Sono queste esperienze, questi corpi viventi di umanità condivisa, a dimostrare che la convivenza non è un’utopia idealistica, ma un orizzonte possibile, da costruire passo dopo passo, contro ogni muro, reale o mentale.
Per questo credo davvero che uno Stato unico, fondato sull’uguaglianza, non sia un’utopia, ma l’unica alternativa credibile a un presente di violenza e a un futuro di disperazione. Non si tratta di negare le identità, ma di renderle vivibili insieme, senza che una prevalga sull’altra. Certo, è difficile. Ma è infinitamente più realistico che perpetuare l’illusione di due popoli separati per sempre da muri, confini armati e gerarchie etniche.
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Qualcuno degli entusiasti sostenitori della soluzione denominata “due popoli, due Stati” si è per caso preso la briga di ascoltare il parere del popolo palestinese in merito?
Forse è arrivato il momento di farlo (non spoilero niente per non rovinare la sorpresa).
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Posso dirti quello che penso io come soluzione che potrebbe andar bene anche ai palestinesi.
Ormai Gaza, completamente distrutta, è ormai andata. E ricostruirla non so se possa avere ancora un senso per gli stessi gazawi, ammesso che possano farvi ritorno a prenderne possesso completamente, magari per riprendere la contrapposizione armata senza fine. Più possibile, penso, è lasciarla agli israeliani con la contropartita di avere uno stato palestinese in Cisgiordania, garantito permanentemente da truppe Onu rinforzate. Un unico stato come auspica Ovadia mi sembra pura utopia senza esito, che lascerebbe mano libera agli israeliani di completare il lavoro sporco iniziato con le 60 mila uccisioni e/o spingere con la forza i palestinesi verso il deserto egiziano.
Naturalmente gli 800 mila coloni abusivi in Cisgiordania dovranno sloggiare, magari per raggiungere Gaza (mi piace pensare che le loro case vengano occupate dai gazawi espulsi). Insomma sicurezza piena e garantita per ambedue le popolazioni in cambio di pace. Non so però se l’ideologia sionista possa accettarlo, visto che Dio avrebbe destinato tutta la regione al suo “popolo eletto”.
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Se tu credi che anche soltanto uno, tra Netanyahu ed Hamas, siano disposti ad accettare una cosa del genere (e dovrebbero esserlo entrambi), mi chiedo dove tu abbia vissuto finora.
Da una parte abbiamo un essere, che molti (anche da queste parti) praticamente dipingono come la personificazione del diavolo, che dovrebbe improvvisamente redimersi (letteralmente) sulla via di Damasco, restituendo addirittura il maltolto e creando un discreto fastidio a milioni di suoi potenziali elettori.
Dall’altra abbiamo un’organizzazione che, fra gli altri, ha tra i suoi scopi dichiarati quello della distruzione dello Stato di Israele, che dovrebbe anche lei redimersi all’improvviso, per spiegare ai suoi sostenitori che finora hanno scherzato, e che i martiri caduti per la causa in tutti questi anni sono tutti morti invano: mettiamoci una pietra sopra, e d’ora in poi tutti amici.
Perdonami, ma a me tutto ciò sembra poco credibile, per usare un eufemismo (stavo per chiederti notizie sul tuo spacciatore, ma non vorrei risultare offensivo), pertanto prima di ritenere che anche una briciola di tutto ciò possa essere possibile, anche solo lontanamente, preferirei che tale credenza si basasse su qualcosa di almeno vagamente concreto.
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Naturalmente non ti chiedo quale potrebbe essere l’esito di un tuo sforzo di immaginazione, che non sei in grado di sostenere, visto che sembri solidamente incollato allo stato della situazione disperata dei palestinesi. Bisognerebbe averla bene in mente una realistica e possibile soluzione prima ancora di auspicarla e sollecitarla ai potenti, soprattutto europei, che arrendevolmente risultano incapaci di smuovere la pervicace intenzione dell’alleato d’oltre oceano, da cui tutto discende, di non far nulla. Anzi, continua a essere scandalosamente corresponsabile di quella immane tragedia con tendenza non dissimile dal classico genocidio del secolo scorso.
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Perché, quella descritta sarebbe una soluzione “realistica e possibile”? Sei corresponsabile quanto me.
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“Ritengo che l’unica soluzione possibile sia quella di uno Stato laico democratico per tutti gli abitanti di quella terra con gli stessi identici diritti per i suoi cittadini.”
Ho sempre ammirato Ovadia e lo ammiro, ma quello che lui si augura come soluzione è l’utopia della disperazione.
Uno dei due popoli è destinato a soccombere e sarà quello palestinese, il sio-nazi si è impossessato dell’impero d’occidente e non avrà ostacoli nel suo intendimento sterminerà tutti i palestinesi che potrà.
Le conseguenze per l’impero d’occidente non le conosciamo ancora, ma si possono in parte intravedere.
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Ovadia semplicemente esprime la meno infattibile delle due ipotesi. Ma sono entrambe desertificate.
Israhell non è il Sudafrica. I bianchi sudafricani non ambivano a sterminare i neri, solo a tenerli a bada e sotto controllo.
Questi invece vogliono lo ‘spazio vitale’ come i nazisti in Russia.
Purtroppo non c’é una soluzione valida. Ovadia spera in una presa di coscienza israeliana, ma è dura, dura, dura.
Anche Bibi sta cercando di disarmare chi dovrebbe indagare su di lui, un pò come Zeze in Ucraina.
La grande tragedia è che gli arabi sono deficienti e venduti come nessun altro popolo.
Tutti presi in lotte tribali in Siria, in Libano, in Irak.
Non gliene frega niente della Palestina.
La ‘fratellanza araba’ è stata una sovrastruttura, adesso vai a supportare i palestinesi se sei l’Egitto, che campa giusto con gli aiuti americani, o quelli del Golfo, troppo intenti a fare shopping in Europa.
Non so quanto e come durerà, ma quei criminali degli 800.000 coloni (ben rappresentati da Ben Gvir) non se ne andranno mai dalla Cisgiordania.
Francamente Bibi è stato solo l’ultimo cataclisma della serie iniziata quasi 200 anni fa oramai, certamente da oltre 100 anni è così.
Ps ma quanto sono brutti i leader sionisti. Da Meir a Begin a Shamir a Ben Gurion, a Sharon, Bibi è il meno peggio.
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