La Ue congela i suoi dazi: “Evitiamo provocazioni”. E la Casa Bianca incassa. Oggi a Bruxelles il comitato per le barriere doganali sospenderà la lista delle merci importate in vista dell’intesa con gli Usa

Una nave portacontainer nel porto di Oakland, in California  

(Claudio Tito – repubblica.it) – BRUXELLES – «Non possiamo non sospendere i dazi. Sarebbe una dichiarazione di guerra». La linea di credito che l’Ue ha aperto agli Usa non è e non si può esaurire nelle prossime ore. Oggi, dunque, verranno sospesi ufficialmente i controdazi europei. Anche se ancora non è arrivata una risposta formale al testo proposto da Bruxelles per la dichiarazione congiunta che sancirà la pace commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, l’Unione ha comunque bisogno di lanciare un segnale di distensione.

Del resto, è il ragionamento che si fa Palazzo Berlaymont, se non si procedesse con il “blocco” delle tariffe dopo l’ordine esecutivo approvato da Donald Trump venerdì scorso, equivarrebbe a rimettere tutto in discussione. Nelle ultime ore le disposizioni impartite da Ursula von der Leyen a tutti i “negoziatori” europei sono state molto nette: «Dobbiamo fidarci degli Stati Uniti e bisogna evitare tutte le provocazioni. Questo accordo va chiuso».

Per questo oggi il comitato per le barriere doganali che ha la competenza di attuare le modifiche sulle tariffe proposte dalla Commissione, sospenderà i provvedimenti studiati il mese scorso per rispondere alle minacce della Casa Bianca. A quel punto ci sarà tutto il tempo necessario per definire e concordare il documento congiunto nel quale saranno inserite anche le specifiche sulle esenzione settoriali. Ad esempio i dazi sulle auto europee verranno ridotti al 15 per cento (erano stati portati al 27,5 per cento dal tycoon), così come sui farmaci. Gli aerei invece avranno una tariffa zero. Nello stesso tempo i negoziatori discuteranno sulle tasse per gli alcolici e (più difficilmente) su quelle relative ad acciaio e alluminio. Su questo punto l’Amministrazione americana è ancora irremovibile.

E sebbene l’indicazione sia quella di credere alla buona fede americana, in Commissione ha iniziato a circolare un detto italiano: «Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio». Quindi il via libera di oggi dovrà essere ratificato entro due settimane in forma scritta. E in ogni caso la sospensione non è a tempo illimitato ma per sei mesi.

Una procedura, insomma, che consente di correre rapidamente ai ripari se ci fossero sorprese da Washington. Anche se la presidente della Commissione, che si sta giocando una parte consistente della sua credibilità politica e l’agibilità dei prossimi quattro anni di mandato, considera l’intesa l’unica strada per sopravvivere. Se Trump venisse meno agli impegni adesso, sarebbe per lei il fallimento definitivo. Le critiche nei suoi confronti sono tuttora aspre e una giravolta le renderebbe ancora più dure.

Anche gli States, comunque, sembrano intenzionati a chiudere rapidamente la partita complessiva. Per Jamieson Greer, il rappresentante commerciale degli Stati Uniti, la tornata di dazi è «praticamente definita» e difficilmente cambierà: «Molti di questi dazi sono stabiliti in base ad accordi. Alcuni dei quali vengono annunciati, altri no, altri ancora dipendono dal livello di deficit o surplus commerciale che potremmo avere con il Paese».

Nei prossimi giorni Trump dovrebbe perfino incontrare l’”odiato” premier canadese, Mark Carney, per riprendere la trattativa dopo che gli Usa, in via ritorsiva, avevano alzato la soglia tariffaria al 35 per cento. Pure la Svizzera, cui è stata applicata la tariffa del 39 per cento, è pronta a presentare una nuova offerta alla Casa Bianca.

Di certo il presidente statunitense non programma di rinunciare nel breve periodo alla sua politica commerciale. Da aprile ad agosto ha incassato 152 miliardi di dollari, circa il doppio dei 78 miliardi di dollari entrati nelle casse federali nello stesso periodo del 2024. Solo a luglio le tariffe hanno fruttato quasi 30 miliardi di dollari. Livelli mai visti da quasi 100 anni. Nel lungo termine, però, il rincaro dei prezzi – una media del 18 per cento – potrebbe correggere questa dinamica. Un calcolo che molti stanno facendo e che potrebbe incidere nelle scelte americane dal 2026 in poi.