Per Bruxelles “la designazione di Paesi terzi come Paesi di origine sicuri deve essere valutata da un giudice” e un “Paese è sicuro se protetta tutta la popolazione”

Migranti al porto di Shengjin in Albania

(di Alessandra Ziniti – repubblica.it) – “La designazione di Paesi terzi come Paesi di origine sicuri deve essere suscettibile di una revisione efficace da parte del giudice”. Lo ha deciso la Corte di Giustizia dell’Unione europea pronunciandosi sul ricorso contro la procedura di frontiera nei Cpr in Albania.

La Corte di giustizia europea dà dunque torto al governo italiano e allontana sempre di più il pieno utilizzo dei centri realizzati in Albania, da molti mesi ormai destinati ad ospitare 25 -30 migranti nella zona destinata a Cpr mentre restano vuoti i circa 400 posti che, nel progetto originario di Giorgia Meloni avrebbero dovuto ospitare richiedenti asilo soccorsi in mare.

La sentenza

Il cittadino di un paese terzo – afferma la Corte – può vedere respinta la sua domanda di protezione internazionale in esito a una procedura accelerata di frontiera qualora il suo paese di origine sia stato designato come “sicuro” a opera di uno Stato membro. La Corte precisa che tale designazione può essere effettuata mediante un atto legislativo, a condizione che quest’ultimo possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo vertente sul rispetto dei criteri sostanziali stabilite dal diritto dell’Unione.

“Uno Stato membro non può includere nell’elenco dei Paesi di origine sicuri” un Paese che “non offra una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione”, precisa la Corte.

La decisione “vincola tutti i pronunciamenti di altri giudici nazionali”.

Infine, la Corte precisa che, fino all’entrata in vigore di un nuovo regolamento destinato a sostituire la direttiva attualmente applicabile, uno Stato membro non può designare come paese di origine “sicuro” un paese terzo che non soddisfi, per talune categorie di persone, le condizioni sostanziali di siffatta designazione. Il nuovo regolamento, che consente di prevedere eccezioni per tali categorie di persone chiaramente identificabili, entrerà in vigore il 12 giugno 2026, ma il legislatore dell’Unione può anticipare questa data.

Il ricorso dei tribunali italiani

I giudici di diversi tribunali italiani, ma anche quelli della Cassazione a cui si era rivolto il Viminale dopo i ripetuti annullamenti dei trattenimenti dei migranti portati in Albania (ma anche negli altri due centri italiani per richiedenti asilo), hanno posto alla Cgue due quesiti: il primo riguardava la definizione stessa di Paese sicuro, anche nel caso in cui vi siano categorie di persone o zone a rischio. Un quesito che, dato per acquisito che spetti ad ogni governo, stabilire una lista di Paesi sicuri, condiziona di fatto l’inserimento nella lista di singolo stati in cui questi requisiti non siano rispettati.

Il secondo quesito riguarda l’inserimento in lista di Paesi dove venga riscontrata la violazione in danno di una o più categorie di persone dei diritti inderogabili previsti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

L’impatto della sentenza sul governo

Non sarà possibile riportare prima all’hotspot di Schengjin e poi a Gjader i migranti soccorsi in mare da navi militari italiane e provenienti da quelli che l’Italia ritiene Paesi sicuri, dunque migranti da rimpatriare velocemente a conclusione dell’iter previsto dalle procedure accelerate di frontiera. Un progetto che il governo aveva dovuto abbandonare nei mesi scorsi dopo che numerosi giudici italiani, nel ritenere le norme in contrasto proprio con un pronunciamento della Corte di giustizia dell’ottobre 2024, avevano sollevato alla stessa Cgue quesiti pregiudiziali sulla corretta interpretazione del concetto di Paese sicuro.

L’interpretazione data oggi dalla Corte di giustizia dice dunque ai giudici italiani che il loro intervento per annullare i trattenimenti di migranti provenienti da uno Stato inserito dal governo nella lista dei Paesi sicuri è legittimo.

Un pronunciamento che prende in contropiede il governo che contava molto in una sentenza favorevole in qualche modo preannunciata nei mesi scorsi dalle prese di posizione politiche della gran parte dei Paesi rappresentati alla Corte di giustizia europea, e anche in linea con la nuova direttiva rimpatri che dovrebbe entrare in vigore il prossimo anno subito dopo il nuovo Patto migrazione e asilo.

Dunque fino a giugno ‘26, quando entrerà in vigore il nuovo regolamento, le cose stanno così. Se la Ue ritiene, ed è quello che l’Italia chiederà, può anticipare l’entrata in vigore.