(di Manuela Dviri – ilfattoquotidiano.it) – Stiamo bene, mio marito, io, i nostri figli. I nipoti. In molti me lo chiedono con sincero affetto. Si riesce perfino a dormire un po’ anche se il telefono improvvisamente si accende di notte tre volte per dirti che tra mezz’ora arriva il missile e ti manda al bunker. E poi arriva l’esplosione.

Il momento peggiore però arriva la mattina quando vedo nei media i danni. Il numero dei morti, dei feriti, i luoghi delle esplosioni. E, peggio ancora, vedo le immagini delle riunioni di governo. Tra loro non c’è una sola persona di cui io possa dire: “Mi fido”. Solo figure indegne. E una, più di tutte.

Sono ben protetti, nascosti nei bunker riservati ai membri del governo – comprensibile – ma io li vorrei vedere altrove. A consolare chi ha perso tutto. Li vorrei dagli “invisibili”, quelli senza stanza protetta , senza rifugio, o senza la forza o i mezzi per raggiungerne uno. Intanto, le scuole sono chiuse. Tutto è fermo. Chiuso l’aeroporto. Non si entra, non si esce; 50 mila israeliani bloccati all’estero. Nessuno qui vuole perderla ,questa guerra non richiesta. Tutti sappiamo cosa vogliono gli ayatollah: farci sparire dalla faccia della terra. E dopo il 7 ottobre, abbiamo imparato a credere alle loro parole.

L’Iran per noi non è una minaccia generica: è concreta, vicina, quotidiana pur essendo fisicamente lontana. Passata l’euforia delle prime ore, passata la fantascienza resa realtà dal Mossad e dai nostri piloti, (non certo dai nostri politici) è arrivata inevitabilmente anche la distruzione. La morte. E la sensazione, familiare e amara, che Netanyahu pensi solo a se stesso e all’oggi. Mai al domani. Come vuole finirla questa guerra? Quando? Da tempo ha dimenticato cosa sia essere un leader. Di noi non gliene importa nulla, e tanto meno degli ostaggi a Gaza. E subito dopo torna la paura, che ti rimane addosso come una seconda pelle. E ti organizzi per la prossima notte. Certa che ce la farai anche questa volta.