E Putin fa il mediatore. Il tycoon: “Potremmo essere coinvolti. Pace possibile”

(di Roberto Festa – ilfattoquotidiano.it) – Opzione militare o diplomazia? È il dilemma che in queste ore si trova ad affrontare Donald Trump. In una serie di dichiarazioni delle ultime ore il presidente Usa ha mostrato di preferire di gran lunga la strada dei negoziati. Ma le pressioni che arrivano da Israele e da una parte del suo stesso partito spingono dalla parte opposta, quella dell’intervento armato contro l’Iran. Al momento, Trump sembra temporeggiare. La speranza è che il conflitto in Medio Oriente, dopo la fiammata iniziale, si spenga, facendo tornare le parti al tavolo negoziale. Fonti del governo di Gerusalemme, riprese da Axios, dicono che Benjamin Netanyahu avrebbe chiesto a Trump di prendere parte all’operazione militare contro l’Iran, in particolare contro il sito nucleare di Fordow. Netanyahu ha del resto iniziato questa guerra per prevenire la possibilità di un accordo con Teheran e dare il colpo definitivo e totale al suo programma nucleare. Il primo ministro israeliano sa però molto bene di non disporre delle bunker buster bomb e dei bombardieri necessari per distruggere i siti nucleari iraniani, proprio come quello di Fordow, scavati nella profondità della roccia. Di qui la richiesta israeliana a Washington, che ha quel potenziale distruttivo.

È una richiesta appoggiata da una parte consistente del mondo politico di Washington. Un deputato repubblicano, Don Bacon, e uno democratico, Josh Gottheimer hanno firmato una lettera, cui hanno aderito altri sette democratici, in cui chiedono a Trump di appoggiare senza riserva “una decisiva azione (militare) che viene dopo due mesi di tentativi diplomatici infruttuosi”. I nove chiedono anche di imporre a Teheran sanzioni più dure “per non aver rispettato l’accordo sul nucleare del 2015”. Sulla questione si assiste anche a una rottura profonda all’interno dei conservatori Usa. Il mondo più classico del G.O.P. appoggia con convinzione la guerra di Israele. “Il numero di repubblicani che non vede l’Iran col nucleare come una minaccia esistenziale per Israele è straordinariamente piccolo”, afferma il senatore Lindsay Graham, stretto alleato di Trump. In realtà, una parte importante del MAGA, il movimento al cuore del trumpismo, non vuole andare in guerra per Israele. Charlie Kirk, podcaster di estrema destra, ha parlato delle centinaia di messaggi con cui il popolo trumpiano sta travolgendo la Casa Bianca. “E il 99 per cento è contro l’attacco di Israele”. Tra i tanti squilli di guerra e richiami alla battaglia, Trump resiste. Certo, non dice pubblicamente nulla per frenare l’azione militare israeliana, che anzi definisce “eccellente”. Spiega, a ABC News, che l’America “potrebbe finire per essere coinvolta”. Mette in guardia Teheran dal colpire basi e interessi americani nell’area. Ma in una serie di post e dichiarazioni delle ultime ore lascia comunque trasparire la volontà di andare avanti con i negoziati. Gli iraniani “hanno a questo punto una seconda chance” di arrivare a un accordo, ha scritto su Truth Social. Sempre sulla sua piattaforma ha spiegato che “possiamo facilmente andare a un accordo tra Iran e Israele e far finire questo sanguinoso conflitto”. A questo scopo, il presidente USA pare disposto anche ad accettare la mediazione di Vladimir Putin. “Lui è pronto. Mi ha chiamato. Ne abbiamo parlato a lungo”, ha detto Trump a ABC News.

La scommessa della Casa Bianca – perché di scommessa bisogna al momento parlare – è che dopo la fiammata iniziale, il conflitto militare si affievolisca. A quel punto – con l’Iran seriamente indebolito dai bombardamenti e con Israele che non è però riuscito a completare l’opera di distruzione del nucleare iraniano – Trump spera di riportare le parti al tavolo negoziale. È dunque la debolezza dei due contendenti che nutre le sue aspettative per un’intesa che, fanno notare molti commentatori ed esperti, dovrà necessariamente ricalcare l’accordo stipulato da Barack Obama nel 2015. Questa volta, però, con il sigillo di Trump. È con questo piano in testa che il presidente si dirige al G7 di Alberta. Dove, verrebbe da dire finalmente, si troverà per una volta d’accordo con gli alleati occidentali, tutti desiderosi di evitare un ulteriore allargamento del conflitto.