Il Mit aveva chiesto ai Comuni una mappa degli autovelox, un censimento per capire quanti fossero e dove. Ma il 25% delle amministrazioni non ha risposto. Il decreto Salvini prova a fare ordine sulla dislocazione degli “occhi elettronici” e ne vieta l’uso sulle strade con divieto sotto i 50 km/h. Non chiarisce però il grande nodo delle omologazioni

Il Mit aveva chiesto ai Comuni una mappa degli autovelox, un censimento per capire quanti fossero e dove. Ma il 25% delle amministrazioni non ha risposto

(Vincenzo Borgomeo – lastampa.it) – Ci siamo. Dal 12 giugno entrano in vigore le nuove regole del Mit sugli autovelox: il decreto Salvini, numero 123, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 28 maggio dell’anno scorso, diventa operativo. Un decreto che dovrebbe – nelle intenzioni del ministro dei Trasporti – mettere fine alle «multe selvagge». Regole precise, si diceva: dislocazione degli occhi elettronici stabilita dai prefetti, cartelli a un chilometro di distanza, divieti di piazzare autovelox su strade urbane sotto i 50 km/h o su extraurbane con limiti ridotti ad arte. Un tentativo di razionalizzare l’irrazionale, di mettere ordine in un caos che, tuttavia, sembra destinato a rimanere tale.

Perché il problema, come al solito, non sta solo nelle regole, ma in chi dovrebbe applicarle e in chi, invece, le subisce. Il Mit aveva chiesto ai Comuni una mappa degli autovelox, un censimento per capire quanti fossero e dove. Risultato? Un 25% delle amministrazioni non ha risposto. Non è detto che siano tutte fuorilegge, certo. Ma il silenzio, in Italia, è spesso un’ammissione di disordine, se non di colpa. E così, mentre il decreto cerca di salvare il principio sacrosanto della sicurezza stradale, il sospetto che gli autovelox siano usati come bancomat dai sindaci rimane, e la domanda cruciale resta senza risposta: quanti di questi marchingegni dovranno essere spenti perché non in regola? Nessuno lo sa. Nemmeno il ministero.

E poi c’è il «peccato originale», quello che la Cassazione ha puntato il dito più volte: il nodo omologazione-approvazione. Una distinzione tecnica che sembra un cavillo, ma che sta mandando in tilt il sistema. Le associazioni di consumatori denunciano amministrazioni e comandanti, i giudici annullano verbali, e gli automobilisti, tra ricorsi e accessi agli atti, scoprono che, senza l’omologazione, le multe sono carta straccia. L’autovelox, in quel caso, va spento. Ma il paradosso è che, per arrivare a questo, serve una giungla di carte, bolli, ricorsi e, ora, persino una querela di falso, come stabiliscono due recenti ordinanze della Corte di Cassazione. La prima annulla le multe di autovelox non omologati, la seconda complica la vita a chi vuole contestarle. Una giungla, appunto, come la definisce Giordano Biserni, presidente di Asaps: «Inestricabile».

Per capirci, siamo stretti in una morsa di normative folli, di burocrazia e ricorsi, E la vera emergenza si tace. Oltre 3000 morti l’anno sulle strade italiane, 33 nell’ultimo weekend, 37 in quello precedente. Sulle strade, la velocità continua a uccidere, ma noi discutiamo di omologazioni, approvazioni, distanze minime. «Fermiamo tutto, spegniamo gli autovelox finché non si fa chiarezza», propone Biserni. E non ha tutti i torti. Perché in Italia, a differenza di Svizzera o Austria, dove i limiti si rispettano senza fiatare, gli autovelox sembrano più un pretesto per litigare che uno strumento per salvare vite.

Il decreto Salvini prova a mettere un punto, ma è un punto di domanda. Senza un provvedimento che chiarisca una volta per tutte i criteri di omologazione, senza una mappa reale degli autovelox, senza un coordinamento tra prefetture, Comuni e forze dell’ordine, il caos non si placherà.