Riprendiamo il ragionamento sul tonfo referendario da questa domanda: se votare è un diritto in generale, non votare è altrettanto un diritto?

Non votare è un diritto?

(di Giovanna Casadio – repubblica.it) – Giorgia Meloni se l’è cavata così: sventolando un foglio alla vigilia del voto per i referendum e dicendo che non votare era un suo diritto. Nessuno rompesse i cabasisi, siamo a giugno, liberi tutti. Addio a Mazzini e Garibaldi. Non s’era mai visto un capo di Palazzo Chigi, una premier, che se ne lavasse le mani. Il “dover essere” di risorgimentale memoria, i maestri della Costituzione non interessano, in tempi in cui la contabilità dei morti avanza inesorabile a Gaza e il conflitto ucraino morde, la questione del diritto e dovere del voto rimpicciolisce, obiettivamente.

Perciò nel referendum dei quesiti sul lavoro e la cittadinanza dell’8 e 9 giugno 2025, quando sarebbe stato così semplice prendere una parte, discutere magari con il sindacato Cgil di Maurizio Landini che quei quesiti sul lavoro ha voluto per correggere la riforma del Jobs Act indicata da Renzi e poi votata da un fronte riformista ora pentito, siamo al redde rationem. La destra è al mare, ai monti, ai laghi, forse a visitare un museo ma non nell’agorà dove si dibatte di lavoro e delle relazioni sociali.

Meloni ha ripreso un vecchio cavallo di battaglia: sono libera di fare come mi pare e ci resto. Non ci sono sanzioni per il non voto, quindi? È una scelta. Meloni l’ha rivendicata, anche se il capo del governo non ci fa proprio una bella figura, come uno scolaro ripetente che si dà uno zero da solo, si mette le orecchie d’asino e va in giro ragliando per la felicità di essere libero di prendere la strada che vuole.

Ma tant’è. Meglio, le pare, di avere ottenuto uno dei quorum più bassi: circa il 30% di partecipazione. Nel 2022 per l’acqua pubblica l’affluenza fu del 54%. Adesso, a peggiorare le cose, si discute su chi ha subito più danno la maggioranza o l’opposizione. Una infelice gara .