Elly Schlein ha confessato che se non diventerà premier si dedicherà alla regia cinematografica (“Il Foglio”), forse anche alla luce dell’impegno crescente che il Pd, in buona compagnia […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Elly Schlein ha confessato che se non diventerà premier si dedicherà alla regia cinematografica (“Il Foglio”), forse anche alla luce dell’impegno crescente che il Pd, in buona compagnia (teatrale) mette nella politica recitativa, quella dei “flash mob” a favore di telecamera. Di cui, mercoledì scorso, nell’aula di palazzo Madama un gruppo di senatori dell’opposizione ci ha fornito un exploit significativo: tutti giù per terra e con le mani alzate in segno di resa come risposta simbolica al regime poliziesco instaurato dal decreto sicurezza del governo Meloni. Performance da qualche tempo ispirate a una sorta di situazionismo goliardico, dalla maschera del “Più Europa” Riccardo Magi travestito da fantasma (come, indovinate, l’informazione fantasma della Rai sui referendum). Oppure, l’intervento muto del deputato dem Claudio Mancini (sulle orme probabilmente di Julian Beck e Judith Malina) nella simulazione del silenzio del governo sul famigerato decreto sicurezza.

Va dato atto ai creativi dell’opposizione di aver saputo capovolgere la tradizionale rappresentazione delle proteste d’aula che un tempo degeneravano spesso e volentieri nello scontro fisico condito d’insulti e che oggi preferiscono praticare la nonviolenza della gestualità allegorica. Egemonia culturale ribadita dalla sinistra se pensiamo alla desolante scenetta della mortadella ingurgitata dal berlusconiano Nino Strano per festeggiare la caduta del governo Prodi. Altro discorso è chiedersi in quale misura una tale animazione da teatro dei mimi, con i cartelli che gridano “vergogna”(e le varianti “vergognatevi” o “si vergogni”, espressioni per la verità piuttosto logorate dall’uso) possa convincere gli elettori (superstiti) a premiare nelle urne un tale ammirevole sforzo di immaginazione. Più probabile è che una volta rappresentata nei Tg la politica teatrale (e non più il teatrino della politica) lasci in chi la osserva una divertita curiosità o poco di più. Per cercare di capire i meccanismi più profondi che hanno riformato e deformato il linguaggio della politica ci soccorre il nuovo saggio di Giandomenico Crapis, il cui titolo già dice abbastanza: “La democrazia non è un talkshow” (Baldini+Castoldi). Densa ricostruzione storica sulla televisione italiana che documenta la “mutazione” tra la vecchia tv e quella contemporanea che “in collaborazione con lo sviluppo del web ha contribuito a una vera e propria esplosione del presente”, con “la conoscenza che viene tutta schiacciata sull’istante “. Crapis affronta il problema dell’assenza di pensiero oggettivo, una piaga che ha impoverito il dibattito della pubblica opinione, “in passato piuttosto combattiva e che appare oggi come assuefatta al veleno duopolistico, e ai suoi risvolti politico mediatici, da decenni di intossicazione permanente”. Uno scontro interminabile (scontato e dunque noioso) tra gli opposti partiti del partito preso con la partecipazione compiaciuta di tutte le componenti della sfera pubblica, “dai politici, ai giornalisti, agli intellettuali”. Un trionfo del trito e ritrito che può spiegare la crisi del suffragio universale (ormai sotto la soglia della metà degli aventi diritto al voto) e la contemporanea caduta in termini di copie vendute della carta stampata. Tutto si tiene. Negli anni ’70 fece clamore il saggio di Roger Schwartzenberg sullo Stato che si era fatto spettacolo. Oggi è lo spettacolo che si è fatto Stato e, una volta tanto, si può dire che a fare da avanguardia (in tutti i sensi) sono stati i Dem.