Dal Doge alla Nasa e Starlink: tutti i segreti nelle mani di Elon Musk. Per mesi l’agenzia ha avuto accesso ai dati sensibili degli americani

(Alberto Simoni – lastampa.it) – WASHINGTON. Donald Trump considera chiusa la relazione con Elon Musk, ma dice che sui contratti con le agenzie federali delle sue aziende – da Tesla a Space X – non ha «ancora pensato cosa fare». Gli interessi sono intrecciati, difficile liberarsi dal contractor privato senza lasciare scoperti alcuni servizi strategici, dalla rete di Starlink – che Trump ha elogiato quando si è trattato di venire in soccorso alle popolazioni della North Carolina devastate dagli uragani – sino alla collaborazione con il Pentagono e la Nasa.
In vent’anni il miliardario di origini sudafricane ha ottenuto dal governo per le sue aziende 38 miliardi di dollari. Sono divisi in prestiti, crediti fiscali o normativi (cessione di quote di emissioni), incentivi e sussidi (come i 7.500 dollari di sconto per gli acquirenti di auto elettriche cancellati dall’AmministrazionTrump).
Ma quel che la fine della affinità Musk-Trump comporta è anche una dose di “segreti” che entrambi potrebbero serbare. Trump ha minacciato ritorsioni se Musk si schiererà con i democratici e al suo team aveva già chiesto in passato un report sul rapporto fra l’ex amico e le droghe.
Era rimasto anche lui colpito da certi atteggiamenti di Elon e dai report dei media. Quello del New York Times del 29 maggio con tanto di foto delle pillole frutto di una fuga di notizia ai più alti livelli della Casa Bianca, è un’indicazione chiara dei “dossier” che entrambi possono squadernare in caso di necessità.
Ieri il presidente ha detto che l’Amministrazione prenderà il controllo del Doge, il Dipartimento per l’Efficienza governativa, orfano sia di Elon Musk sia dalla sua stretta collaboratrice Katie Miller, 33enne moglie di Stephen Miller, il teorico delle deportazioni e vice capo dello staff della Casa Bianca. Lei ha svolto in questi mesi un ruolo ambiguo, una sorta di trait-union fra Musk e Trump e mondo del business privato. Con l’uscita di Musk dal Doge, anche Katie ha dato le dimissioni innescando del pettegolezzo che alimenta club e locali della politica washingtoniana che la sua fedeltà a Elon sarebbe ben più salda di quella alla causa dell’Amministrazione.
Trump ritiene il Doge fondamentale anche senza Elon Musk. La struttura ha ancora esponenti – ingegnerei, esperti di AI, ricercatori – legati al miliardario sudafricano. I team sono composti di quattro unità e sono ramificati in ogni agenzia. Nei mesi scorsi hanno avuto un accesso sempre più ampio ai dati e pur trovando ostacoli nell’accesso ai software – essi sono spesso dati in appalto a contractor esterni e non sono gestiti da apparati federali – hanno recuperato materiale sensibile e scovato informazioni su frodi, sprechi e abusi.
La Corte Suprema, venerdì sera, ha dato semaforo verde all’accesso dei dati della Social Security, la previdenza degli americani. È un patrimonio di informazioni impressionante. Il team Doge, a quanto risulta a La Stampa, ha sempre insistito su Starlink come provider per l’accesso alla rete. Garantisce una facilità di ingresso alla rete meno sicura rispetto ad alcuni protocolli – riconoscimento ID e password – in uso alla Casa Bianca ad esempio. Sfruttando la rete i team del Doge sono riusciti a scaricare dati e informazioni – sfruttando anche software potentissimi di Intelligenza Artificiale – potendo anche poi scollegarsi e non lasciando impronte digitali e non risultando tracciati. Cosa ci sia quindi nei computer del team Musk (anche se orfano di Musk) resta un grande interrogativo.
Per quanto riguarda invece Starlink, il Washington Post ieri ha pubblicato un’inchiesta in cui rivela come terminali per l’accesso alla rete satellitare siano stati montati sul tetto dell’Eisenhower Executive Building, dove si trovano gli uffici chiave dell’Amministrazione, senza notificare il Secret Service. I protocolli di sicurezza sono inferiori rispetto allo “schermo” su Internet presente in alcune aree della Casa Bianca.
Elon Musk ha cancellato il post su X legato ai file di Epstein e al nome di Trump che vi comparirebbe. Il presidente non ha mostrato preoccupazione, citando la relazione dell’avvocato del finanziere morto suicida in cella il 10 agosto del 2019, che ha smentito qualsiasi coinvolgimento di The Donald.
Ma i file divulgati alla fine di febbraio da Pam Bondi, Attorney General, non sono completi. I democratici, galvanizzati dall’affondo di Musk, hanno chiesto la completa declassificazione. Musk ha visto qualcosa di inedito? Anche volendola evitare, la domanda circola a Washington.
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Mi viene in mente Rudolf Hess
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TIMOSTENE
Ci hanno cambiato la vita. Ma nessuno ci ha spiegato come si vive adesso.
Non è successo in un giorno. È successo mentre nessuno guardava.
Un passaggio lento, ma irreversibile. Prima il microprocessore. Poi Internet. Poi i social. Ora l’intelligenza artificiale.
Ma il punto non è l’ordine cronologico. Il punto è che non siamo più gli stessi.
Il microprocessore ha portato il calcolo dentro ogni oggetto.
Prima il computer sulla scrivania. Poi quello sulle ginocchia. Poi quello nel palmo della mano. Ora nei muri, nelle auto, nei corpi.
Non abbiamo più bisogno di premere un tasto per attivare una macchina.
È la macchina che ci osserva, ci anticipa, ci misura.
Negli anni Novanta arriva Internet.
All’inizio sembra una biblioteca infinita.
Poi diventa uno spazio abitabile. Si cerca, si scrive, si legge, si risponde.
Il sapere smette di essere trasmesso. Diventa flusso.
Il tempo si comprime. La memoria si scollega dalla durata.
Si accede a tutto, ma si trattiene poco.
Il presente prende il posto della storia.
Poi le chat.
Per la prima volta, la relazione non ha più bisogno del corpo.
Ci si conosce senza vedersi. Ci si sente senza toccarsi.
L’incontro si smaterializza.
La prossimità non è più richiesta. Solo la connessione.
Poi i social. E da lì, la svolta.
L’identità diventa una presenza continua. Non si è, si mostra.
Non si costruisce, si aggiorna.
Il sé diventa un profilo. L’altro non si incontra, ma si scrolla.
La piazza si trasforma in feed. La relazione in notifica.
La visibilità diventa valore. L’assenza, condanna.
Non si cerca il dialogo. Si conquista attenzione.
Ora l’intelligenza artificiale.
ChatGPT scrive. Spotify emoziona. TikTok suggerisce. Amazon anticipa.
Google completa le domande prima ancora che vengano formulate.
L’IA non sostituisce solo il gesto.
Inizia a scolpire il pensiero.
In tutto questo, la frattura si allarga.
I nativi digitali vivono la rete come ambiente naturale.
Sono fluenti, ma spesso inconsapevoli.
Sanno usare, ma non leggere.
I non nativi, invece, gestiscono potere, regole, linguaggi istituzionali.
Ma non parlano la lingua della realtà che amministrano.
Le due tribù si osservano. Ma non si capiscono.
La scuola insegna ancora come se il tempo fosse lineare.
La politica risponde ancora come se il consenso fosse stabile.
E intanto, gli algoritmi imparano.
Non mostrano ciò che è vero.
Mostrano ciò che trattiene.
Premiano la rabbia, la velocità, l’urgenza.
Chi controlla il feed, controlla il modo in cui la realtà viene costruita.
Non si tratta solo di intrattenimento.
Si tratta di potere.
E chi conosce la struttura del feed sa come trasformare la rabbia in traffico, il traffico in consenso.
Influencer, apparati politici, propaganda organizzata: non vendono idee, vendono appartenenza.
Chi non regge tutto questo, reagisce.
Si rifugia in verità assolute.
Identità rigide.
Teorie del complotto.
La semplificazione non è ignoranza. È sopravvivenza in un mondo ingestibile.
Anche il lavoro cambia.
La fatica si automatizza.
La stabilità si dissolve.
Il mestiere non è più ciò che sei, ma ciò che sai aggiornare.
La precarietà non è un’eccezione, ma il modello.
Chi non produce, scompare.
Anche il corpo si trasforma.
Monitorato, sorvegliato, archiviato.
App che tracciano il sonno, la fertilità, la glicemia, l’umore.
Il corpo non è più vissuto. È letto da un sistema.
La salute è un dato. La norma, una media statistica.
Il rischio, un parametro da ottimizzare.
C’è chi vede in tutto questo solo progresso.
C’è chi lo rifiuta in blocco, come se si potesse tornare indietro.
Entrambe le visioni mancano il punto.
La tecnologia non è neutra, ma nemmeno ineluttabile.
È un campo di possibilità.
E il modo in cui lo abitiamo dipende da cosa siamo disposti a diventare.
Siamo a un bivio.
Possiamo lasciare che la tecnologia ci trascini.
Una società di flussi ottimizzati.
Efficienza sopra ogni cosa.
L’uomo come funzione. La democrazia come interfaccia.
La libertà compressa in una serie di opzioni già predisposte.
Oppure possiamo fare un passo oltre.
Immaginare una tecnologia che lavora per noi, non contro di noi.
Un mondo dove le macchine si occupano della fatica.
Della ripetizione. Dell’efficienza.
E noi, finalmente, ci riprendiamo il tempo.
Tempo per leggere, per studiare, per stare.
Tempo per la conoscenza che non serve a produrre.
Per la creatività che non cerca consenso.
Per la spiritualità che non si misura.
Per la memoria che non si archivia, ma si custodisce.
Un’umanità che non teme il futuro perché ha imparato a pensarlo.
Una scuola che insegna a leggere gli algoritmi, non solo a usarli.
Una politica che non regola i dati per controllare, ma per emancipare.
Una cultura che valorizza il dubbio, il legame, il limite.
Tutto ciò che non si può vendere né automatizzare.
Questo futuro non è garantito.
Va costruito.
Richiede tempo, studio, visione, responsabilità.
Non può essere lasciato alle piattaforme.
Non può essere affidato al mercato.
La tecnologia ci ha riscritto.
Ma il prossimo capitolo dipende da noi.
E allora, se le macchine faranno tutto ciò che oggi chiamiamo lavoro,
cosa faranno miliardi di persone a quel punto della loro vita?
Come useremo il tempo che ci verrà restituito?
Sarà un’umanità che si riscopre, o un’umanità che si perde?
Tocca a noi deciderlo.
Insieme.
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