La base di Ghedi e la Beretta. Capolista, è la provincia che esporta di più: 1,5 miliardi di artiglieria nell’ultimo triennio. E in ossequio alla Nato, in mezzo alle campagne ospitiamo bombe termonucleari

(di Tommaso Rodano – ilfattoquotidiano.it) – Il segreto delle armi nucleari a Ghedi è uno dei peggio custoditi d’Italia. A spegnere ogni dubbio fu una fotografia pubblicata su Facebook nel 2018 dai soldati americani. Nello scatto (che vedete in pagina) gli uomini in mimetica posano sorridenti, espongono la bandiera del 704th Munns, lo squadrone che si occupa della gestione delle munizioni nella base. Alle loro spalle c’è un aereo Tornado, sullo sfondo le colline della Bassa Bresciana. Ai piedi, invece, una bomba termonucleare B-61. Ghedi è la casa dei “Diavoli Rossi”, il 6º Stormo, il reparto dell’Aeronautica addestrato al trasporto degli ordigni atomici che ospitiamo nel nostro territorio, in ossequio agli accordi di condivisione nucleare della NATO. Nonostante le omissioni sistematiche delle istituzioni, la presenza delle bombe atomiche a Ghedi non è più un’ipotesi, ma un fatto. Il numero ufficiale non è noto, ma tra qui e Aviano (Pordenone) le bombe americane sono circa 50; nei dintorni di Brescia almeno una ventina.

La base è una cittadella fortificata in mezzo ai campi, uno scherzo surreale che spezza la quiete contadina. C’è un contrasto brutale tra l’innocenza del paesaggio agricolo – l’odore di sterco, le balle di fieno sui prati, come in un disegno infantile – e il decollo degli aerei da guerra. Da Brescia ci si imbatte all’improvviso: si attraversa Castenedolo, poi un lungo rettilineo fino alle recinzioni e al filo spinato. Di recente la base di Ghedi si è rifatta il trucco: “Negli ultimi anni sono stati spesi circa 200 milioni di euro per riadattare gli hangar ai nuovi F-35”, spiega Francesco Vignarca di Rete Pace e Disarmo. Il primo F-35 Lightning II è atterrato qui il 14 giugno 2022. Da allora abitano i cieli bresciani ogni giorno: la scorsa estate hanno superato il traguardo delle mille ore di volo. Il confine militare, ironicamente, è segnato dalle fattorie. Al cancello della Cascina Maria Rosa c’è un uomo su un trattore, si concede due chiacchiere. È normale, dice: “Quando sono nato la base era già qui. Se scende un aereo non si può parlare, ti assorda. Ma ci si abitua, per il resto non danno fastidio”.

Vista dal satellite, l’area fortificata è grande quasi quanto il Comune. A Ghedi gli abitanti che convivono con caccia e bombe sono circa 18 mila. C’è anche la sede di Rwm, cellula italiana del gruppo tedesco Rheinmetall, un altro gigante dell’industria bellica: gli uffici dell’azienda sono in un anonimo capannone a pochi chilometri dal centro, ma le sue bombe si fabbricano in Sardegna.

Ci allontaniamo e ci infiliamo di nuovo in mezzo ai campi. Il silenzio è interrotto da spari regolari, entriamo nell’impianto del tiro a segno. I tavoli del ristorante “Da Marco vini e sapori” sono piazzati di fronte a pedane e bersagli. Il titolare è Marco Perani, baffo folto, occhiale scuro, piglio ruspante. Racconta le peculiarità del tiro all’elica: “È difficile perché si muove in modo irregolare, imprevedibile, a differenza del piattello. Una volta si sparava al piccione, ma sai com’è… gli animalisti rompono i coglioni”. Il locale è arredato con fucili e carabine. Su una parete, la foto degli atleti che hanno vinto una medaglia alle olimpiadi di Sydney 2000. È curioso: nel poster non ci sono solo tiratori italiani, ma tutti quelli che usavano armi “Perazzi”, un’azienda del territorio; il tifo per la fabbrica arriva prima del tricolore. “Qui costruiamo le armi migliori del mondo – dice Marco – sono un vanto”. La base militare la liquida con una battuta: “Sappiamo delle bombe nucleari, ma non c’è ansia, le nascondono bene”, ride. “Certo, se scoppia una guerra, noi diventiamo un bel bersaglio”.

Ha ragione lui: le armi sono un’eccellenza bresciana e un orgoglio che il territorio rivendica senza rossori. Mezz’ora a nord di Brescia, arriviamo a Gardone Val Trompia, ai piedi delle montagne. Nei cartelli che circondano la rotonda all’ingresso del paese, il segno del vero potere cittadino: “La città di Gardone Val Trompia – si legge – ringrazia Beretta”. Al centro, il logo delle pistole più famose d’Italia. La Fabbrica Pietro Beretta è la più antica del mondo: inonda di armi l’Italia e il mondo dal 1526, quasi cinquecento anni. La produzione è storia e identità culturale, c’è anche un museo che espone le armi come opere d’arte. Il fatturato di Beretta sfiora i 317 milioni di euro, con 933 dipendenti. Attorno al colosso ruotano decine di attività minori: nella provincia di Brescia ci sono oltre 60 aziende armiere. Sommando le imprese aerospaziali, meccaniche e di supporto alla difesa, si raggiunge un indotto di circa 3.500 occupati e un fatturato di oltre 1,2 miliardi (dati Weapon Watch, Gianni Alioti e Carlo Tombola).

È una storia che si ripete, anche qui: chi si oppone al potere dell’industria bellica soffre di solitudine, senza il sostegno di politica e sindacati. Eppure a Brescia è cresciuta una delle reti pacifiste più vivaci, capace di mobilitare anche 5 mila persone nelle manifestazioni maggiori. Piergiulio Biatta è il presidente di Opal (osservatorio permanente sulle armi leggere). “La fabbrica è considerata sacra – racconta – e la Beretta finanzia pure l’oratorio; quando abbiamo provato a organizzare incontri a Gardone, nemmeno i parroci ci volevano ascoltare”. Ma Opal continua a raccogliere dati per denunciare l’export di armi leggere in ogni angolo del mondo: “Kalashnikov, pistole semiautomatiche e fucili – dice Biatta – sono usati in decine di conflitti. Non rientrano nella legge 185/90, a volte vengono esportati come fossero da caccia o da tiro sportivo. Kofi Annan le ha definite le vere armi di distruzione di massa”. Secondo i dati Istat, rielaborati da Giorgio Beretta, nell’ultimo triennio la provincia di Brescia ha venduto circa 600 milioni di euro di armi (comuni e militari) solo agli Stati Uniti. Al secondo posto c’è il Qatar (113,371 milioni di euro), poi l’Arabia Saudita (78 milioni). È saldamente in testa alla classifica italiana: da qui, nel triennio, sono partite armi per un valore che sfiora il miliardo e mezzo. Roma, seconda, esporta meno di 800 milioni.

Agostino Zanotti è un’altra delle voci del disarmo. Ha una storia incredibile: “Nel 1993 la mia associazione lavorava per aprire un corridoio umanitario e portare in Italia donne e bambini da Zavidovici, una città della Bosnia. Sulla strada dei Diamanti fummo assaltati da una banda irregolare”. Tre dei suoi compagni sono stati fucilati: Guido Letti, Fabio Moreni e Sergio Lana. Lui e un altro volontario riuscirono a scappare per miracolo. Zanotti oggi è assessore all’ambiente e alla cultura a Roncadelle. “Con la corsa al riarmo, il discorso pubblico sulla riconversione è stato ribaltato. Anche le fabbriche civili stanno passando al militare. Siamo sempre più soli”. Eppure resiste. Perché ha una missione da portare avanti per gli amici che non ci sono più. E per una forma di “inquietudine personale”, dice. “Sant’Agostino sosteneva che la speranza avesse due figli: lo sdegno e il coraggio. Non basta indignarsi per Gaza e gli altri massacri, bisogna trovare il coraggio di parlarne ovunque: nei bar, nei luoghi di lavoro, in famiglia. E fuori dalle fabbriche”.