
(di Milena Gabanelli e Maria Serena Natale – corriere.it) – Freddati da raffiche di Ak-47, traditi e vilipesi, suicidi per non cadere in mani nemiche, processati o esiliati, i dittatori fanno sempre una brutta fine. Proprio loro che credettero di «essere la meraviglia del proprio tempo», come il Macbeth di Shakespeare, saranno dannati e banditi dalla Storia. Così passano i tiranni.
E così passarono Benito Mussolini e Hitler, e anche Josif Stalin. Dopo la caduta dell’Urss furono rimosse le statue e rinominate le vie a lui dedicate. La Seconda guerra mondiale doveva essere lo spartiacque per l’Europa e il mondo. Mai più massacri, dittature, gulag e oppressione dei popoli. E invece.
Pol Pot
Il generale cambogiano Pol Pot ammira la Rivoluzione francese e il marxismo. Da giovane viaggia in Europa, ottiene una borsa di studio a Parigi, lavora in Jugoslavia. Tornato in Cambogia, all’inizio degli anni Cinquanta nel quadro delle rivolte anti-francesi nei territori dell’allora Indocina, è tra i fondatori del Partito rivoluzionario del popolo Khmer con il quale vive una lunga latitanza fino alla salita al potere dell’aprile 1975. Nel 1978 a 53 anni ha compiuto la rivoluzione agraria della Kampuchea Democratica. Così il regime comunista ed etno-nazionalista dei Khmer rossi ha rinominato la Cambogia. Svuotate le città e deportata la popolazione nelle campagne, smantellati ospedali e proprietà privata, scomparsi in quattro anni quasi due milioni di persone su sette. Eliminati nelle esecuzioni di massa, sterminati nei campi di lavoro, abbattuti dalle carestie. Un genocidio durato fino al 1979, quando le truppe vietnamite invadono il Paese e insediano il nuovo governo. Nel 1997 Pol Pot è un’ombra nella giungla, sopravvissuto ad anni di guerriglia, malato e braccato dalla paura di essere tradito dai fedelissimi che non esita a far fuori. Nell’ultima intervista al giornalista americano Nate Thayer appare inerme e perso nell’estremo tentativo di autoassolversi: «Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per il mio Paese. Ero solo inesperto. Le sembro una persona violenta?». Il «Fratello numero uno» muore a 72 anni il 15 aprile 1998, ufficialmente colpito da infarto. Per Thayer, quel giorno con lui nel villaggio vicino al confine thailandese dove il dittatore scontava i domiciliari, è stato suicidio: un cocktail di tranquillanti e antimalarici per non essere consegnato agli americani.
Idi Amin Dada
Del dittatore ugandese Idi Amin Dada non si conosce con certezza la data di nascita, 1924 o 1925. Non è sicuro che «Dada» sia un clan o un soprannome, né è noto il numero dei figli: 40 ufficiali da 7 matrimoni, in totale forse una sessantina. Tutto si sa della fine: in esilio, stroncato da un’insufficienza renale il 16 agosto 2003 all’ospedale Re Faisal di Gedda, nel Regno Saudita ultimo rifugio dorato dopo Libia e Iraq. Abilità e fanatica megalomania lo portano a diventare, da assistente cuoco nell’esercito coloniale britannico, comandante delle forze armate dell’Uganda indipendente e lo aiutano poi a barcamenarsi tra potenze occidentali e Unione Sovietica trovando amici in Israele e Nord Africa come nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, nel Regno Unito o in Germania Est. Nella vertigine d’onnipotenza si autoproclama «Signore di tutte le bestie della terra e dei pesci dei mari, Conquistatore dell’Impero britannico in Africa, Re di Scozia senza corona».
Non è dato sapere il numero preciso delle vittime di persecuzioni etniche e uccisioni sommarie negli otto anni della sua presidenza, dal colpo di Stato del 1971 al disastroso tentativo di conquistare la Tanzania. Le stime variano tra 100 e 300 mila. La prima grave crisi internazionale nel 1976 quando autorizza l’atterraggio del volo Air France da Tel Aviv a Parigi dirottato da terroristi palestinesi e tedeschi: nel blitz israeliano per liberare gli ostaggi, l’Operazione Entebbe, muore il comandante delle forze speciali Yonathan Netanyahu, fratello maggiore dell’attuale premier Benjamin. L’attacco alla Tanzania del ’78 precipita l’Uganda in una lunghissima fase di instabilità e vendette, con nuovi padroni e nuovi orrori come i bambini-soldato dell’Esercito di liberazione del Signore fondato da Joseph Kony nel 1987. Amin è lontano, forse già dedito alla dieta fruttariana ossessione degli ultimi anni. È passato alla storia con il nome di «Machete, Macellaio d’Africa, Hitler nero».
Nicolae Ceausescu
Ceausescu diventa segretario generale del Partito comunista della Romania nel 1965; dal ’74 è presidente della Repubblica socialista. Industrializzazione intensiva e piani di rieducazione: il Paese è lanciato in un progresso forzato che riesce solo in parte a spezzare le antiche radici contadine, mentre il regime cerca un’autonomia mal sopportata a Mosca. Controllo sociale capillare attraverso la terribile polizia segreta, la Securitate. Vietati aborto e qualsiasi forma di contraccezione al motto «Il feto è proprietà dello Stato», premi alle «madri eroine». Culto ossessivo della personalità del capo: Ceausescu arriva ad auto-conferirsi uno scettro spiazzando anche Salvador Dalí che invia un telegramma di congratulazioni (ironia surrealista fraintesa, sarà preso per un omaggio vero). A Bucarest si fa costruire una colossale Casa del popolo, il palazzo più pesante del mondo, oggi sede di Parlamento e Corte costituzionale. Le proteste studentesche del dicembre 1989, nel sentimento di svolta che si diffonde da un Paese all’altro del blocco comunista, convincono infine il Conducator a lasciare la capitale con la moglie Elena. Fermati nella rocambolesca fuga tra le campagne dove sono nati, del processo sommario restano le immagini a colori riprese con una Panasonic M7 nella caserma di Târgoviște. Sembrano due anziani contadini spaventati, spogliati del potere e stretti in cappotti troppo pregiati per quelle stanze misere come il Paese, che lui aveva ridotto alla fame con il razionamento alimentare. È il 25 dicembre 1989, meno di un’ora davanti alla corte marziale, la fucilazione improvvisata che la videocamera non ha il tempo di filmare passerà alla storia come la fine dell’unica rivoluzione violenta contro i sistemi comunisti nell’Europa centro-orientale. Hanno 73 e 71 anni, le mani legate. Mentre a Bucarest cospiratori e fazioni s’avventano sulle spoglie del regime lei grida «Andate all’inferno», lui canta l’Internazionale. Questo il racconto ufficiale. Anni dopo, uno dei tre paracadutisti incaricati quel giorno di imbracciare i kalashnikov ricorderà di aver incrociato lo sguardo di Ceausescu nell’attimo in cui diventava chiaro che non ci sarebbe stato appello. Finiva lì, e Nicolae pianse.
Milosevic
Slobodan Milosevic è il leader autoritario che in nome della Grande Serbia accende l’odio etnico nei Balcani degli anni Novanta. Nato sotto l’occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale, comincia come funzionario comunista nella Jugoslavia di Tito prossima all’implosione, e diventerà agitatore nazionalista. Lungo il cammino si presenta come uomo di pace firmando con il croato Franjo Tudman e il bosniaco Alija Izetbegovic gli Accordi di Dayton che nel 1995 chiudono la guerra di Bosnia ed Erzegovina: eppure nel conflitto ha appoggiato attivamente le forze serbo-bosniache del presidente Radovan Karadzic e del comandante dell’esercito Ratko Mladic che hanno pianificato e condotto le operazioni di pulizia etnica contro la popolazione musulmana. Tre anni dopo insieme all’ultranazionalista Vojislav Seselj cavalca l’escalation che porta alla nuova guerra del Kosovo. Anni di discorsi infuocati e giganteschi patrimoni personali accumulati, anche grazie alle sanzioni, da un gruppo di potere che tiene dentro politica, banche, apparati di sicurezza e gerarchie militari. Finisce con l’arresto e l’estradizione all’Aja, dove il Tribunale Onu per la ex Jugoslavia lo chiama a rispondere di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Croazia, Bosnia, Kosovo: tre atti d’accusa, uno per ciascuna guerra. La sentenza non arriverà mai. Quando la mattina dell’11 marzo 2006 lo trovano immobile nel letto, Milosevic è morto da ore. Fatalità o ultimo sfregio, la fine per infarto a un passo dal verdetto è una sconfitta per l’intero sistema di giustizia penale internazionale. Il processo più importante estinto tra ipotesi di avvelenamento e suicidio mai confermate dalle indagini. A 64 anni «Slobo» è solo nella sua cella del carcere di Scheveningen con le ombre di milioni di profughi e centomila morti.
Saddam
Inaugura la scalata con il colpo di Stato con i nazionalisti arabi del partito Baath nel 1968, per arrivare alla conquista della presidenza nel 1979. L’era di Saddam Hussein sull’Iraq è segnata da torture e stragi, dalla persecuzione delle minoranze, dallo sterminio dei curdi, dalla guerra all’Iran, l’invasione del Kuwait, la prima guerra del Golfo, e l’odio per gli Stati Uniti. Il 9 aprile Bagdad cade, s’apre il palazzo con i bagni in marmo e oro, cade dall’alto piedistallo in piazza Al Firdos la statua del raìs: una tra le tante nel Paese disseminato di immagini grandiose, diventerà il simbolo della dissoluzione del regime. Il 13 dicembre le truppe americane scovano Saddam in una buca nel terreno di una fattoria poco lontano dalla sua Tikrit. La barba lunga e impolverata, i capelli arruffati, lo sguardo perso. Di quelle ore ricordiamo le immagini diffuse dai vincitori: il dittatore non oppone resistenza, apre docile la bocca e tira fuori la lingua per i controlli sanitari, sfila con i polsi legati nelle foto ricordo dei soldati. Tre anni dopo, dicembre 2006, il tribunale speciale formato da cinque giudici iracheni respinge l’appello: la condanna per crimini contro l’umanità commessi nel massacro degli sciiti di Dujail nel 1982 è definitiva. Gli Stati Uniti (che nel 2011 si ritireranno dal Paese mai pacificato, avviato a nuovi conflitti e all’ascesa dei fondamentalisti del sedicente Stato islamico) vorrebbero rinviare l’esecuzione di un paio di settimane ma il nuovo Iraq ha fretta di chiudere. La data fissata è il 30 dicembre. Saddam Hussein ha 69 anni. In qualità di ex comandante in capo ha chiesto la fucilazione, negata. Il video ufficiale si ferma quando gli sistemano il cappio intorno al collo, qualcuno continua a filmare e il mondo sentirà le grida e gli insulti, vedrà il patibolo di legno e il buio intorno.
Le sue colpe tuttavia non bastano a lavare la coscienza dell’Occidente che nel marzo 2003 invade l’Iraq in cerca di inesistenti armi di distruzione di massa.
Gheddafi
Artefice del colpo di Stato che travolge la monarchia di re Idris, nel 1969, Muammar Gheddafi proclama la Repubblica araba di Libia. Impone da subito un regime autoritario che punta a costruire una forte identità nazionale in un Paese diviso in tribù: rientrano in questo disegno l’espulsione dei 20 mila italiani residenti e la persecuzione di tutti i gruppi non arabi, dai berberi agli ebrei. Il Colonnello gioca la carta del nazionalismo e della rivoluzione anti-imperialista, anti-occidentale e anti-israeliana. Nel 1977 proclama la Grande Giamahiria-la Repubblica delle masse «socialista e popolare», scrive un Libro Verde sul modello del Libretto Rosso di Mao Zedong. Migliora alfabetizzazione e sanità, promuove riforme sociali improntate alla sharia (la legge islamica). Intorno alla sua famiglia un sistema di potere cleptocratico che si difende con restrizioni delle libertà civili, detenzioni arbitrarie, sparizioni, uccisioni sommarie. È accusato di finanziare il terrorismo internazionale. Le indagini di britannici e americani sulla strage del volo Pan Am 103 con 259 persone a bordo, fatto esplodere con una bomba nei cieli sopra la cittadina scozzese di Lockerbie nel 1988, accerteranno le responsabilità di due cittadini libici, che Gheddafi rifiuta di estradare. Le conseguenti sanzioni decise dall’Onu lo costringeranno a dichiararsi responsabile come capo del governo (non ad ammettere di aver dato l’ordine) e risarcire le famiglie delle vittime. Nell’ottobre 2011, già incriminato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità, l’uomo che da 42 anni domina incontrastato sulla Libia, che ha in giro per il mondo beni e conti correnti per 200 miliardi di dollari, che agli incontri con i leader si presentava scortato da amazzoni e vestito alla beduina, è in fuga nel deserto. La rivolta sul vento delle primavere arabe è sfociata in guerra civile portandosi dietro l’intervento dei Paesi Nato trascinati dalla Francia e sotto l’egida dell’Onu. Da mesi Gheddafi ha lasciato Tripoli per Sirte, sua città natale, dov’è rimasto asserragliato man mano che le forze del Consiglio di transizione avanzavano. Il convoglio è bloccato dai ribelli, il Colonnello tenta di nascondersi in una tubatura di drenaggio. Sarà brutalizzato con indicibile violenza e finito con un colpo di pistola alla testa.
E oggi?
Nella Russia di Putin, nella Cina di Xi Jinping, nella Corea del Nord di Kim Jong-un il dissenso è perseguito e punito anche con la morte. Il dittatore siriano Bashar Assad ha trovato rifugio a Mosca. Sul premier israeliano Netanyahu pende il mandato d’arresto della Corte dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità. Nella grande democrazia americana il presidente Donald Trump caccia chiunque non approvi le due decisioni e punisce chi ha idee diverse.
Nella stessa Europa ci sono leader che promuovono apertamente politiche illiberali. Anziché progredire sulla strada del diritto e della democrazia come avevamo giurato dopo le ultime guerre, il mondo torna a farsi sedurre da modelli autoritari e dittatoriali. Sappiamo com’è andata a finire tutte le altre volte.
dataroom@corriere.it
Ci sono delle eccezioni all’ elenco, e di personaggi importanti: Francisco Franco morto ad 82 anni e Pinochet morto a 91 anni, entrambi nel loro letto…..magari per disattenzione sono sfuggiti alla Gabanelli
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Comunque tutti maschi: c’è da farsi due domande. Che forse allora la Phon Der Nazi non sia una trans…? 🤔😊🤣
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Stavo scrivendo la stessa cosa 😀
probabilmente la signora gabanelli ha dimenticato i due dittatori perché hanno dato prova di aperture democratiche incontrando in signor H. Kissinger. Qui il gigante della diplomazia usa e grande amico del signor Gianni Agnelli stringe la mano a Francisco Franco.
Famosa è anche la foto con Pinochet.
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Eccola
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ed ecco i due compari
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e be’ prima o poi per tutti l’ora scocca…sotto a chi tocca?
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Poteva mettere pure Fidel Castro ( che io apprezzo) ma non comprendo dove si voglia andare a parare. Che i Capi incontrastati ( dittatori, golpisti, leader carismatici che si trasformano in Autocrati etc.) facciano spesso una brutta fine, è vero. Ma non riconosco alcun valore “morale” in più a leader cosiddetti democratici ( vedi Blair, Bush jn., lo stesso Obama) o alla cricca “democratica” della UE, dalla Von der Leyen alla Kallas, da Starmer a Macron.
Il mondo ha assetti politici e istituzionali diversi. Non c’è una legge morale che stabilisce il sistema migliore.
E comunque la Democrazia moderna assume sempre più i connotati di una Truffa.
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«E comunque la Democrazia moderna assume sempre più i connotati di una Truffa.»
Molto vero… 😩
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Caro Cecco …la democrazia è come la “cingomma” : ognuno se la tira come ca22o vuole!
Ciaooo…
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Dove vuole andare parare?
La Gabbianella segue il vento della celebrazione delle sorti magnifiche e progressive dell’Occidente collettivo a guida PD (=Pseudo Democratica) come un Serra qualunque (o Calenda o Vecchioni ecc.).
Quindi, i dittatori di <non> abbiamo bisogno (© Draghi) “peste li colga”, come direbbe Scurati ormai bloccato in trance di immedesimazione secondo il Metodo Stanislavskij.
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Anch’io avevo pensato a Castro, ma li’ c’è stata una rivoluzione, certamente come in Russia con la rivoluzione di ottobre, e Lenin che con Stalin ci azzecca poco! Hai perfettamente ragione poi ad escludere l’ aspetto etico, che ogni volta pare un presupposto dogmatico alla lettura storica delle azioni/scelte in base alla struttura /organizzazione politica di un paese, come dittatura o democrazia , come se Netanyahu non fosse colpevole delle sue orrende azioni solo perché democraticamente eletto in un paese democratico! E qui la questione diventa appunto problematica, i valori democratici restano realmente tali quando esercitati per la gestione interna, mentre nello stesso tempo, i democratici usano la forza bruta, la repressione e violenza, all’ esterno, su altri popoli? La democrazia è un valore universale costruito su rispetto, tolleranza, uso della parola, della conoscenza ed intelligenza, che serve a convincere, cioè a vincere in due, opposto alla forza bruta , che certamente nell’ immediato può far vincere , una parte forte , ma non a lungo termine, come succede alle dittature, oppure è un “ valore” limitato, che proprio per la sua limitatezza, perde ogni moralità? Cosa definisce la moralità di una democrazia? La libertà nazionalista goduta per i propri confini territoriali, a scapito di chi sta fuori? La truffa è questa, assolversi da ogni barbaria o nefandezza in nome della democrazia che non ha più nulla di valoriale, universalistico , quando usa gli stessi identici metodi, brutali, della dittatura …..Alla fine è un alibi che nasconde i veri interessi economici/finanziar/sociali , al di fuori della struttura politica , democratica o dittatoriale, da sostenere e servire, anche con la forza o con le guerre, e che sono interessi antitetici ad ogni etica!
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E poi:
Zelensky
Suharto
Marcos
Palhevi
AL Sisi
I bei tempi dei regimi razzisti o dittatoriali di: Sudafrica, Guatemala, Salvador, Nicaragua, Cile, Argentina, Brasile, Cuba, Spagna, Portogallo.
Vogliamo parlare di Erdogan?
O di Bibi?
E tutti gli emiratini, ma proprio tutti, + Arabia Saudita.
Taiwan fino all’86 inoltrato.
Corea del Sud fino fine anni ’80.
Vietnam del Sud (Dhiem)
Ma la Gabbanelli ci mette solo i dittatori ‘nemici dell’occidente’.
Dopo questi ultimi due articoli che ha fatto, può solennemente andarsene affanc…
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Per me è andata affanc…da mo’, e l’ articoletto è ovviamente strabico….per certi giornalisti la sorte dei dittatori è legata esclusivamente al “ con alcuni ci devi parlare “ pronunciato dall’ indubbio cultore della democrazia Mario Draghi…..poi in base al dialogo di interesse i dittatori sono buoni o cattivi…..si chiama etica strabica, ma tanto, tanto utile e redditizia a politici, giornalisti, opinionisti, intellettuali che tengono famiglia e con quello che costa, ti fai andar bene la qualunque, e che sia democratico, dittatore, monarca, non fa alcuna differenza, il parametro di apprezzamento si chiama pecunia, e da tempo immemorabile non olet!
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La Gabbanelli si è dimenticata qualche nome o sbaglio?
Pinochet e Francisco Franco li avete già aggiunti.
Poi ci sarebbe da parlare di SUHARTO dell’Indonesia (ricordate Timor Leste?)
Ci sarebbe da dire di ZELENSKY (strano eh) uno che mica è dittatore, nooo, ha solo soppresso 11 partiti d’opposizione, non va ad elezioni e si è impossessato di tutto il potere ucraino.
Ci sarebbe da dire dei CONIUGI MARCOS (Ferdinando e Imelda) tra i pù grandi ladroni di tutti i tempi, e se ricordo bene, adesso le Filippine vengono amministrate dal FIGLIO.
CI sarebbe da raccontare dei dittatori d’Asia estrema.
Sapete o no che il Pakistan è a tutt’oggi una sorta di dittatura militare, dove persino una presidente decente (Benazir Bhutto) è stata assassinata?
Sapete o no che Taiwan è stata fino a fine anni ’80 una DITTATURA MILITARE?
E che pure la Corea del Sud, di fatto, è stata per decenni una DITTATURA a tutti gli effetti? Quando i nordcoreani invasero la Corea del Sud, nei campi di ‘rieducazione’ c’erano 100.000 (!) sudcoreani, e il governo coreano diede ordine di ammazzarli tutti!!!
Sapete o no che in Iran Mossadeq venne rovesciato da un complotto CIA-MI6 per metterci lo ‘Scià’?
E che Il presidente Thomas Sankara del Burkina Faso fu assassinato dal solito ‘amico dell’Occidente’?
Parliamo di Guatemala, Salvador, Nicaragua?
O vogliamo parlare del grande democratico stato di Arabia Saudita e altri emiratini, dove non si vota manco per finta?
Lo stesso KUWAIT era ben noto per essere solo una cleptocrazia, visto con disgusto dal popolo. Quando Saddam lo invase nel 1990, egli rappresentava incredibilmente un paese con PIU’ diritti civili e diritti allo studio e stato sociale di quel che c’era in Kuwait.
E l’elenco potrebbe continuare.
Gabbanelli, tra questa e il discorso dei ‘sovranisti’ ti sei sputt’anata totalmente e senza rimedio.
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ANATEMA!!! non si possono infangare così impunemente i nomi dei “dittatori di abbiamo bisogno” (© Draghi).
L’ offesa all’onore dei Capi di Stati esteri (amici) sarà punibile ai sensi dell’ art. 297 Codice Rocco, attualmente abrogato ma ne è prevedibile la restaurazione.
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La nostra si è già sputta@ata da almeno un decennio, o più , quando si è prestata ad affossare Di Pietro, di intralcio ai disegni piddini…..se ti presti, perdi ogni credibilità ed autorevolezza, e poco importa per chi ed a chi ti presti ! E’ una questione di principio che ti rende subalterno, strumentale e quindi non autonomo, indipendente, intellettualmente onesto, e per un giornalista e’ l’ antitesi deontologica! Va bene che la nostra informazione non sa nemmeno dove stia la deontologia e ricorre allo smanettamento dell’ iPhone per sapere cosa significa, ma la Gabanelli si era costruita un’ immagine diversa, ecco, appunto, era apparenza……
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