“È stata l’ideologia woke a spalancare la strada alla destra più reazionaria”, c’è scritto sulla copertina del saggio “La sinistra non è woke”, fresco di stampa. L’autrice è Susan […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – “È stata l’ideologia woke a spalancare la strada alla destra più reazionaria”, c’è scritto sulla copertina del saggio “La sinistra non è woke”, fresco di stampa. L’autrice è Susan Neiman, filosofa morale laureata a Harvard che, scossa come tanti dal trionfo di Donald Trump, propone una semplice e affilata domanda: come diavolo è potuto succedere?

La prima risposta è impietosa: la destra ha vinto perché la sinistra non esiste quasi più. Si parla di quella sinistra che fin dai tempi dell’Illuminismo si stringeva intorno ad alcuni valori che ne costituivano l’identità più intima: desiderio di giustizia sociale, spinta verso l’universalismo, fiducia nel progresso. Neiman spiega come mai dalla seconda metà del Novecento, “uno a uno questi valori sono stati messi in discussione da certe frange liberali e movimentiste”, fin quando la sinistra si è smarrita. Motivo per cui molti fra coloro che oggi si considerano “di sinistra” non sono davvero “di sinistra”, sono “woke”. Termine che indica chi estremizza le battaglie a difesa delle diversità e contro il razzismo e le discriminazioni di ogni genere fino a sfociare nei fanatismi della “cancel culture”. Ciò, secondo l’autrice, ha originato un movimento “che vorrebbe il progresso ma diffida della modernità; che nega ogni fronte comune possibile, frammentando il corpo sociale in tribù identitarie in lotta, che rinuncia ai diritti sociali e si aggrappa esizialmente ai diritti civili”. Nel pretendere che nazioni e popoli affrontino il proprio passato criminale, il movimento woke (con le agguerrite varianti “antifa”) finisce per attribuirsi il ruolo di unico inappellabile giudice e per concludere che sia la storia intera a essere criminale. Assoluta (e partigiana) incapacità di pensiero oggettivo di chi trova comodo inquadrare qualunque scelta e opinione nelle categorie del bene (noi) e del male (tutti gli altri), e che finisce per disorientare.

Per esempio, l’aggressione trumpiana contro le università americane che non si adeguano alle nuove regole della Casa Bianca suscita una naturale indignazione in chiunque abbia a cuore i fondamenti della democrazia e dunque l’autonomia dell’insegnamento. Poi, però, leggiamo sul “Wall Street Journal” la testimonianza di Ruth Wisse, insigne studiosa di yiddish, dal titolo: “Così ho visto la mia Harvard diventare un grande avamposto islamista”. Dura testimonianza (certamente non neutrale) sull’antisemitismo sempre più diffuso negli atenei americani soprattutto in seguito alla politica stragista del governo Netanyahu a Gaza. Secondo Wisse, “l’obiettivo di distruggere Israele, centrale nell’identità araba islamista, è stato ammesso a Harvard insieme ad alcuni studenti e investitori stranieri”. L’autore stima in oltre 100 milioni di dollari i finanziamenti all’università ricevuti da Emirati Arabi Uniti, Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Bangladesh negli ultimi anni. Per chi sostiene l’ideologia woke è tutto chiaro: Trump è un fascista che cerca di soffocare la libertà di parola con la scusa della propaganda ProPal. Tuttavia, una sinistra non del tutto colonizzata dal movimentismo woke non dovrebbe porsi qualche domanda in più?