L’annuncio. Il premier israeliano vara un piano di escalation. Il vertice dell’Idf non è d’accordo: “Ci mettete in pericolo”

(di Fabio Scuto – ilfattoquotidiano.it) – Cinquanta giorni dopo aver fatto saltare una possibile tregua nella Striscia di Gaza il governo israeliano ha deciso di cambiare tattica. Sarà guerra, con migliaia di soldati a prendere il controllo prima del nord della Striscia per poi passare al centro e al sud. La nuova operazione di terra che prevede l’occupazione di Gaza include anche un piano per assumere il controllo della distribuzione degli aiuti, già respinto dai gruppi umanitari internazionali. Per 18 mesi Israele ha attaccato le roccaforti di Hamas e poi si è ritirato, consentendo ai miliziani di infiltrarsi nelle aree una volta ritirate le forze. Ora ha approvato una strategia che include il mantenimento del territorio per garantire che Hamas non si possa ricostruire. Israele ha costantemente aumentato la pressione su Hamas prima bloccando l’ingresso di tutti gli aiuti e beni commerciali, poi riprendendo i bombardamenti aerei che hanno portato le vittime palestinesi a oltre 52 mila e i feriti a oltre 120 mila.

“La guerra non è finita”, ha annunciato Netanyahu dopo che il suo gabinetto di sicurezza ha approvato l’estensione dei combattimenti. “Condurremo questa operazione con un esercito unito e potente e soldati risoluti”. Secondo fonti, non prima della visita di Trump nel Golfo. Ma non è chiaro in che modo questi combattenti aggiuntivi modificheranno la dinamica di una guerra in cui centinaia di migliaia di soldati hanno massacrato i combattenti di Hamas, con i residenti di Gaza intrappolati nel mezzo, senza però riuscire a raggiungere gli obiettivi di distruggere il gruppo militante o liberare tutti gli ostaggi. E proprio il Forum delle Famiglie degli Ostaggi ieri si è scagliato contro il premier e i suoi. L’espansione delle operazioni militari spegne la speranza di veder tornare vivi i 24 ostaggi israeliani – su 59 – che si presume siano ancora in vita, ribadisce anche l’Idf.

Ora il governo è pronto a espandere anche la sua offensiva terrestre, con l’obiettivo di rientrare nelle città di Gaza e costringere Hamas a sottomettersi alla richiesta di Israele di deporre definitivamente le armi. Un’opzione possibile ma poco realistica. Con i combattimenti fra le rovine l’Idf rischia di pagare un prezzo di vite molto alto con l’intensificazione di un conflitto mortale, con conseguenze sempre più gravi per i palestinesi e per gli ostaggi israeliani.

Nel piani di Netanyahu c’è il controllo diretto e la limitazione della distribuzione degli aiuti umanitari per 2 milioni di persone, un piano che le organizzazioni internazionali ritengono contrario ai principi umanitari, logisticamente inattuabile e potenzialmente pericoloso per i civili e il personale palestinese. Stando a quanto trapelato, Israele permetterebbe l’ingresso di circa 60 Tir al giorno di generi alimentari umanitari di base, un decimo di quelli che passavano fino alla tregua di marzo. Una volta dentro la Striscia, gli aiuti verrebbero inviati a grandi centri di raccolta sotto la protezione di contractor statunitensi, che dovrebbero garantire la sicurezza dentro e nei dintorni dei centri. Inizialmente gli hub dovrebbero essere sei, per poi essere aumentati a otto. In ogni caso, largamente insufficienti per 2 milioni di persone che dipendono del tutto dagli aiuti.

I finanziamenti per il costo dei contractor americani saranno erogati da una nuova organizzazione non profit appena registrata in Svizzera, la Gaza Humanitarian Foundation, i cui finanziatori privati restano al momento nell’ombra. Le due compagnie di contractor americani incaricate di gestire la logistica e la sicurezza sono la Safe Reach Solutions e la Ug Solutions. La prima è diretta da un ex funzionario della Cia, la seconda da un ex Berretto Verde veterano in Iraq e Afghanistan. Una soluzione che dovrebbe mitigare il disappunto del presidente Usa Donald Trump. Non è un caso che nella visita della prossima settimana in Medio Oriente andrà in Arabia Saudita, in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti. Non c’è una tappa in Israele, dove il premier non nasconde l’ira per le trattative sul nucleare tra Usa e Iran. Netanyahu e Trump sono costretti a fingersi pubblicamente amici, ma alla fine nessuno si fida davvero dell’altro.