Come tre anni fa. Trump e i negoziati mandano in tilt politica e commentatori. Tornano i complotti dei “pacifisti” e gli elenchi per mettere all’indice i “putiniani”

(di Tommaso Rodano – ilfattoquotidiano.it) – Il dibattito pubblico non si è mai distinto per qualità ed equilibrio, sin dal giorno uno dell’invasione russa in Ucraina. Ma senza pretendere di dare patenti o lezioni di giornalismo o morale – chi scrive non vuole e non se lo può davvero permettere – negli ultimi giorni si è mostrato un livello di aggressività e irrazionalità senza precedenti: opinionisti, intellettuali e politici italiani sembrano impazziti come la maionese.

Cosa dire del gesto di Romano Prodi? Di nuovo, proviamo a scansare i moralismi e le strumentalizzazioni con cui la destra ha sviscerato e ingigantito l’episodio in questi giorni (per poi mostrare il suo volto ipocrita, nel rapporto con i giornalisti, grazie all’ennesima “donzellata” con l’insulto al nostro Giacomo Salvini). Dal principio la polemica su Prodi è stata alimentata con dovizia microchirurgica, riprodotta al rallentatore con il gusto cinico dei peggiori moviolisti. Infine è arrivata l’inquadratura definitiva, quella mostrata da Giovanni Floris a DiMartedì: l’ex premier ha effettivamente allungato le mani e poi strattonato una ciocca di capelli della cronista di Quarta Repubblica, Lavinia Orefici, che gli aveva citato un estratto “meloniano” del Manifesto di Ventotene. Al di là dell’entità, un comportamento sgradevole. E ci si chiede: quanto dev’essere deteriorato il clima perché un uomo di Stato, un politico esperto, un ex presidente del Consiglio e della Commissione europea, un signore di 85 anni conosciuto per la sua mitezza, almeno in pubblico, non sia in grado di gestire una domanda semplice, per quanto ingenua e fastidiosa la possa ritenere? Prodi all’inizio ha negato di aver tirato i capelli della giornalista. Di fronte a un’altra cronista, l’altro giorno, ha risposto così: “Si figuri se parlo con lei, poi dicono che l’ho stuprata”. Ieri infine si è timidamente scusato: “Ho commesso un errore e di questo mi dispiaccio. Ma sono stato strumentalizzato”.

Un altro decano della politica italiana, Fausto Bertinotti, pure lui elegante signore di 85 anni appena compiuti, ha alzato la temperatura della sua retorica: “Sono un nonviolento, ma dopo le parole di Meloni alla Camera sul Manifesto di Ventotene, un atto ritenuto da tutti fondativo della Repubblica italiana, le avrei lanciato un oggetto contundente, un libro. Che magari poi le può anche servire”. Non una frase istintiva, ma rivendicata e ripetuta più volte negli ultimi giorni.

La questione del riarmo, la piazza di Repubblica, il moto affettivo (e aggressivo) verso il sacro testo di Ventotene: da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca, gli orfani dell’America democratica hanno alzato la posta; l’aria che tira è ancora più incattivita e intollerante di quella che si respirava nella prima fase del conflitto, quando i quotidiani fedeli alla linea occidentale stilavano le liste dei commentatori “putiniani”.

Anche un signore del giornalismo italiano come Paolo Mieli, ieri mattina ha commentato l’affaire Prodi con un ragionamento dai tratti surreali: “Nei giorni scorsi Prodi aveva fatto delle interviste, una al Corriere, in cui aveva preso le distanze dalla Schlein sulla questione riarmo. Io non sono dietrologo – ha detto Mieli durante la rassegna di 24 Mattino – ma proprio ora gli arriva addosso questa vicenda”. Non sarà dietrologo, ma dalle sue parole si dovrebbe dedurre che l’ex premier sia stato vittima di una specie di subdolo complotto “pacifista” della segretaria del Pd, contraria al mastodontico piano di riarmo europeo. Lo stesso Prodi, peraltro, che lo scorso ottobre, durante una lecture all’Ucl di Londra, su Putin diceva questo: “Ho discusso con lui molte volte in passato, ci si doveva sempre dialogare. Nel 2004 si parlava di Mosca nella Ue. Non sembrava una questione di ‘se’, ma di ‘quando’”. E sull’Ucraina invece questo: “Avrebbe dovuto rimanere uno Stato cuscinetto, ponte tra la Russia e la Nato, ma oramai tutti questi discorsi non contano oggi”.

Poco meno solenne della retorica su Ventotene, ieri il Foglio ha pubblicato un appello firmato da Adriano Sofri: “Cari ospiti di Gruber, ribellatevi alle falsità di Travaglio sull’Ucraina”. Una chiamata collettiva e individuale, in cui Sofri fa nomi e cognomi degli arruolati a ristabilire la verità: “Nathalie Tocci, Massimo Giannini, Paolo Mieli, Lucio Caracciolo, Lina Palmerini, Monica Guerzoni, Mario Monti, Andrea Scanzi, Beppe Severgnini, Alessandro De Angelis, Rosi Braidotti, Massimo Cacciari, Luca Josi, Pino Corrias… completate voi l’elenco, cito alla rinfusa, prescindendo dalle varie opinioni, e confidando nella comune larga alfabetizzazione”. In sintesi, per Sofri, il direttore del Fatto è un analfabeta e dice una bugia: “che Zelensky si legò le mani rispetto a qualsiasi negoziato quando nel settembre del 2022 decretò il divieto a trattative con la Russia di Putin che non prevedessero il ripristino integrale dei confini ucraini”. Di più: è “peggio che una falsità, è una contraffazione” che coincide “con la retorica del Cremlino”.

Siamo sempre lì: chi non si allinea alla narrazione atlantista – oops, europeista – è nel migliore dei casi un bugiardo, nel peggiore un prezzolato di Mosca (o del nuovo inquilino della Casa Bianca?).

Lo stesso furore ideologico e la difesa del diritto internazionale scompaiono magicamente quando ci sono da raccontare le gesta atroci di Israele a Gaza e in Cisgiordania. L’altra sera il direttore del Tg La7, Enrico Mentana, si è prodotto in uno spettacolare giro di parole per annunciare la notizia del linciaggio e del rapimento del regista palestinese, il premio Oscar Hamdan Ballal, da parte di un gruppo di criminali incappucciati e dell’esercito israeliano: “È stato purtroppo oggetto di un attacco da parte di settlers, cioè di quelle persone israeliane che vivono i loro insediamenti come, in qualche modo, una vita di confine, armato, nei confronti della popolazione palestinese”. Antani sarebbe orgoglioso. È così difficile dire “coloni”?