Militare, commerciale, culturale, contro l’ambiente, contro il genere: i conflitti in corso sono tanti. E il nemico, secondo il costituzionalista, è il modello di pace e di dialogo democratico

Francisco Goya, 3 maggio 1808

(di Annalisa Cuzzocrea – repubblica.it) – Con la guerra è così. Più indietro vai, più risali all’origine, meno la causa del conflitto apparirà chiara. Si confonderanno i torti e le ragioni. Si sommeranno senza riuscire a districarli. Quindi, dice Gustavo Zagrebelsky, l’unico invito che possiamo fare «è quello alla comprensione tra i popoli». Biennale Democrazia inaugura a Torino e il titolo di quest’anno è Guerre e Paci. Il presidente emerito della Consulta, che da vent’anni anima e presiede l’iniziativa nata nel segno di Norberto Bobbio, dice che mai come quest’anno il tema è arrivato da solo. Di cos’altro si poteva parlare, in un tempo come questo?

Gustavo Zagrebelsky alla presentazione di Biennale Democrazia

Guerre e paci perché?

«È un titolo naturale per il tempo che viviamo, ma è anche, se guardiamo a cinque o dieci anni fa, sorprendente. Dopo la grande paura delle due bombe atomiche di Nagasaki e Hiroshima, in Europa abbiamo vissuto sostanzialmente con l’idea che la guerra non ci riguardasse più».

Nonostante la ex Jugoslavia, Belgrado, Sarajevo, il Kosovo?

«Diciamo la verità, abbiamo sempre avvertito quel mondo post-comunista come non veramente europeo. Non appartenente, per usare un termine che non mi piace perché viene dagli anni ’20 e ’30 del ’900, alla stessa comunità di destino».

È un termine molto bello, se pensiamo che quel destino era un orizzonte di pace.

«Non lo è, perché è come se ci fosse una forza che ci trascina verso chissà dove senza che sappiamo o che vogliamo. E invece, quel che siamo e che saremo non dipende da alcuna forza oscura, ma da noi».

Come è tornato lo spirito di guerra?

«Le cause delle guerre che “fioriscono” in mezzo a noi sono state a lungo sottovalutate. Ma nulla di quel che accade è privo di ragioni. Io non credo si possa dire che la guerra in Ucraina sia il prodotto della follia di un uomo: Putin. Ci sono ragioni storiche, oggettive perché, se non ci fossero, nessun pazzo, nessuna cricca militare o di guerrafondai troverebbe l’humus su cui lavorare per far scoppiare i conflitti».

Non stiamo parlando solo di eserciti, giusto?

«C’è la guerra militare, poi quella commerciale, culturale, dell’Occidente contro il resto del mondo. Ci sono la guerra ecologica e perfino quella di genere cui è dedicato un certo numero di incontri. Si può considerare una questione limitata, il problema della divisione del mondo in due sessi o più generi, ma dietro c’è un conflitto più profondo tra il mondo così come si evolve e si sviluppa spontaneamente e il tradizionalismo. Tra il nuovo e il vecchio».

Il vecchio pare stia prendendo il sopravvento.

«Perché è in corso un conflitto tra queste due visioni della società, e quindi della storia. Temo però che nel programma manchi una cosa che mi sta a cuore e su cui ho scritto un libretto per le Vele di Einaudi. Si intitola Simboli al potere: politica, fiducia, speranza, e ha molto a che fare con quello di cui stiamo parlando. I simboli, lo dice l’etimologia, tengono insieme individui e persone che nemmeno si conoscono. Basta guardare una partita di calcio per capirlo. Non esiste comunità senza simbolo. Ma quel che unisce alcune persone le divide dalle altre. Quindi i simboli hanno anche un valore diabolico, che viene da diavolo: il divisore per eccellenza».

Le guerre e la propaganda si nutrono di simboli.

«È così da sempre. Ma prendiamo un esempio che a me sta a cuore perché ho una posizione pro pace, non pro guerra. Mi si dice che sono un illuso, un’anima bella, perfino pericoloso. Che in questo momento bisogna schierarsi, invece che cercare una terza via: la diplomazia, il confronto, l’esplorazione di strade alternative per risolvere le ragioni di conflitto. Chi pensa questo è trattato da traditore della patria».

Da chi?

«Dai bellicisti che dominano la pubblica comunicazione».

Le sembra davvero così?

«Quelli che noi chiamiamo stati moderni hanno tutti o quasi un monumento al milite ignoto. Un eroe di guerra, un corpo senza nome che è il simbolo di coloro che la guerra la fanno fare agli altri. L’Italia nel primo conflitto mondiale ha fatto la guerra all’Austria, ma i suoi dirigenti hanno mandato in guerra i soldati. Sono loro quelli obbligati a mettere in gioco la vita. La propaganda serve a coprire il sacrificio che compiono, a eccitare gli spiriti con l’amor di patria e l’odio verso il nemico. Bisognerebbe intitolare quelle statue al milite inconsapevole, e chiederci se siamo davvero tutti per la pace».

Non è così?

«Vedo trasparire una certa nostalgia di guerra, che ha una tradizione illustrissima nella storia del pensiero politico. Hegel la paragonava al vento che passava su un’acqua paludosa mettendola in movimento. Marinetti parlava di guerra igiene del mondo».

Non siamo più nel ’900 futurista.

«No, ma c’è una nostalgia che si traduce nel dileggio di coloro che pensano si possa fare opera di pace. Da parte di chi considera la guerra inevitabile, parte essenziale dell’essere umano».

Quel che dice vale anche per le guerre di resistenza?

«La resistenza non è una guerra. Quella italiana è stata fatta con azioni anche militari, ma difendersi quando sei attaccato con la forza è un diritto naturale. Nel codice penale la legittima difesa è causa di non punibilità e questo vale anche per i popoli. Quella della Russia nei confronti dell’Ucraina è una guerra, quella degli ucraini è resistenza. Di ogni conflitto andrebbero studiate le ragioni che spesso si perdono nella notte dei tempi. In Russia come in Palestina».

E tornando a quella notte, cosa scopriremmo?

«Che i russi pensano che l’Ucraina sia la loro terra, che si sentivano minacciati militarmente o dalla possibile insorgenza di una democrazia occidentale. E che i palestinesi ritengono che non fosse giusto togliere agli arabi la terra come risarcimento per la Shoah, un crimine occidentale. Nella nostra storia non ci sono solo i diritti umani, le cattedrali e la poesia, ci sono Hitler, i campi di sterminio, l’imperialismo. Ma probabilmente più si risale indietro e meno le cause di quel che accade oggi sono chiare. Per questo l’invito è quello alla comprensione tra i popoli».

Perché siamo tornati a ragionare solo in termini di conflitto?

«Nella seconda metà del ’900 eri o di qua o di là, c’erano il mondo comunista e quello capitalista e questi due mondi, si dice ora, hanno garantito la pace. Ma l’equilibrio del terrore non è pace. È, come diceva Spinoza, solo una guerra rinviata. Lo spirito di guerra era in attesa, pronto a scoppiare per ragioni soprattutto economiche. Sono convinto che a portare 50 mila persone, tra cui il sottoscritto, a piazza del Popolo sia stata una visione dell’Europa come strumento di pace. Tutti noi che abbiamo letto e cercato di capire, a differenza di qualcuno, il manifesto di Ventotene, sappiamo che proprio a questo può servire l’Europa. Chi ci garantisce che la guerra non parta per errore? Che queste tecnologie controllate dall’intelligenza artificiale siano affidabili?».

O che lo siano Trump e Musk?

«Siamo in mano a una tecnologia che spesso controlla gli esseri umani, ma anche a potenziali folli che possono pensare di usare strumenti come le bombe atomiche o per impadronirsi del mondo intero o per distruggerlo. Da qui questo appello a temere la guerra e promuovere tutti gli strumenti di convivenza, economici, culturali, di scambio. Chi ha pensato, quando la Russia ha attaccato l’Ucraina, di chiudere le frontiere agli artisti russi è stato folle. I confini andavano spalancati. Nei tornei di tennis gli atleti bielorussi e russi non hanno il diritto alla bandiera. Per dirla con Dostoevskij, è una cosa da idioti».

Biennale Democrazia

Dedicata a “Guerra e paci” torna a Torino in varie sedi, dal 25 al 30 marzo, la IX edizione di Biennale Democrazia, presieduta da Gustavo Zagrebelsky. Oltre 100 incontri ed eventi, con più di 220 ospiti sia italiani che internazionali. E Zagrebelsky terrà la sua lectio, dal titolo “Su tre cose si regge il mondo”, il 27 marzo (ore 10) al Teatro Carignano