Da decenni ci sentiamo ripetere che a fronte di un mondo sempre più veloce e sempre più complesso serve una democrazia più efficiente, più esecutiva, più snella. Le riforme di […]

(di Silvia Truzzi – ilfattoquotidiano.it) – Da decenni ci sentiamo ripetere che a fronte di un mondo sempre più veloce e sempre più complesso serve una democrazia più efficiente, più esecutiva, più snella. Le riforme di sistema, proposte via via da governi di tutti i colori (e tutte naufragate) andavano e vanno, pur con formule diverse, in questa direzione. Non ultima, naturalmente, la madre di tutte, il premierato, momentaneamente in stand by, ma non abbandonata: “L’abbiamo promessa agli italiani e la porteremo avanti”, ha detto la ministra Casellati al forum in masseria organizzato lo scorso weekend da Bruno Vespa. Il “fate presto” delle riforme costituzionali dà i suoi frutti: secondo un sondaggio condotto da Swg e promosso dall’associazione “Io cambio”, presentato venerdì scorso alla Sapienza, il 56% degli intervistati chiede maggiore stabilità dei governi. Esigenza sentita particolarmente nell’area di centrodestra, ma condivisa anche da un terzo degli elettori di sinistra e metà di quelli di centrosinistra. Tuttavia dalla stessa ricerca emerge anche una “diffusa disinformazione” sul tema, che coinvolge circa la metà (!) degli intervistati: a furia di sentirsi dire che serve un governo con maggiori poteri, la gente ci crede anche se non sa perché.

Per capire l’utilità di quei fastidiosi orpelli delle democrazie che sono i poteri di controllo, basta guardare quel che accade in America, democrazia presidenziale per eccellenza, famosa però per il sistema di check and balance (“controllo e bilanciamento”). Dal suo insediamento Donald Trump ha emanato quasi 80 ordini esecutivi, due e mezzo al giorno, estremizzando una vecchia teoria che identifica il presidente e il potere esecutivo, dichiarandone per ciò stesso costituzionale ogni provvedimento: “La mia amministrazione reclama il potere da questa burocrazia che non rende conto a nessuno e ripristinerà la vera democrazia. I giorni dei burocrati non eletti sono finiti”, ha detto l’altra notte nel passaggio del discorso sullo stato dell’Unione in cui ha difeso i licenziamenti di massa dei dipendenti federali. Poche ore dopo la Corte Suprema ha reso pubblico un primo pronunciamento contro una decisione del presidente (sul taglio dei fondi Usaid).

Una buona notizia? Vedremo. Sappiamo però che sei giudici su nove della Corte sono di orientamento conservatore, tre sono stati nominati da Trump. Nel 2024, in riferimento all’assalto a Capitol Hill, la Corte suprema ha garantito a Trump l’immunità penale, rischiando di renderlo, nelle parole di una dei tre giudici dissenzienti, Sonia Sotomayor, “un re al di sopra della legge”. E non è un caso che qualche giorno fa sia apparsa, sul sito della Casa Bianca, una foto di Trump con in testa una corona. Sulla carta e nella retorica dei sistemi presidenziali, quello americano è connotato da diffusi meccanismi di controllo reciproco fra gli organi costituzionali: a un motore forte corrispondono freni altrettanto efficienti. Sembra che non sia così. E allora facciamo attenzione alle parole, ai politici che una volta vinte le elezioni sbraitano “prendiamo tutto”, ai Salvini che invocano i pieni poteri, alle riforme che snelliscono i passaggi e accentrano i poteri, alla demolizione dell’autonomia della magistratura. La storia corre veloce: smantellare ora lo Stato di diritto è un errore che potremmo pagare carissimo. La distruzione del welfare, l’aumento delle diseguaglianze, la corsa al riarmo sono ottime ragioni per mantenere più democrazia possibile. La potenza, diceva una vecchia pubblicità, è nulla senza il controllo: in realtà è peggio, è un danno.