Il direttore del Dis, dipartimento che coordina servizi segreti interni ed esteri, ha presentato un esposto contro il procuratore di Roma Francesco Lo Voi. È un attacco aperto al magistrato, che arriva dopo settimane di tensioni con l’esecutivo e i servizi. Ieri il ministro Salvini parlava di “regolamento di conti” tra gli 007 in relazione al caso Paragon.

(di Luca Pons – fanpage.it) – La notizia è arrivata ieri in serata: nei confronti di Francesco Lo Voi – procuratore di Roma già nel mirino del governo Meloni per aver comunicato l’iscrizione al registro degli indagati alla presidente del Consiglio, ai ministri Piantedosi e Nordio e al sottosegretario Mantovano – è arrivato un esposto. A firmarlo è stato Vittorio Rizzi, direttore del Dis, il Dipartimento informazioni per la sicurezza. Ovvero, l’organo che si occupa per conto del governo di coordinare l’Aise (i servizi segreti all’estero) e l’Aisi (i servizi segreti interni).
Una mossa inusuale: tradizionalmente, ci si aspetta che il capo dei servizi mantenga una certa riservatezza anche sulle vicende interne, e tanto più nei rapporti con gli altri poteri dello Stato. In questo caso, invece, l’esposto è stato subito reso noto. E sembra poter essere un altro elemento in quel “regolamento di conti interno” nei servizi segreti di cui ha parlato Matteo Salvini.
Come c’è dietro l’esposto contro Lo Voi
A portare l’attenzione del pubblico su Lo Voi era stata Giorgia Meloni. Nel video in cui annunciava di essere indagata per il caso Almasri e aveva definito il procuratore “quello del fallimentare processo a Matteo Salvini”. Lo Voi, all’epoca pm a Palermo, era stato uno dei magistrati coinvolti nel processo Open Arms.
Questa settimana, poi, il sottosegretario con delega ai servizi segreti Alfredo Mantovano aveva a sua volta criticato l’operato di Lo Voi. Non in una sede qualunque, ma davanti al Copasir, il comitato parlamentare che si occupa di sicurezza e di rapporti con i servizi. L’audizione di Mantovano avrebbe dovuto essere riservata, ma di fatto ne sono emersi diversi passaggi.
Le critiche di Mantovano riguardavano un caso diverso da quello di Almasri: si trattava della vicenda legata a Gaetano Caputi, capo di gabinetto di Giorgia Meloni. Caputi era stato sottoposto ad alcuni accertamenti dall’Aisi (servizi segreti interni). Il problema è che poi i documenti confidenziali legati a questi accertamenti erano stati richiesti dalla Procura di Roma per un’indagine, e soprattutto inseriti nel fascicolo a disposizione degli indagati, che erano quattro giornalisti. In questo modo, i documenti dell’Aisi erano stati divulgati.
Secondo Mantovano, è stata colpa della Procura di Roma (e quindi di Lo Voi), con una “grave” violazione delle norme sui documenti secretati. La stessa opinione del Dis, dato che Rizzi ha presentato un esposto alla Procura di Perugia proprio per questa ragione.
Sul piano legale, non è ancora chiaro se l’esposto si trasformerà poi in un’indagine che andrà avanti: si intrecciano le norme che riguardano i documenti classificati (in teoria in casi simili gli indagati hanno il diritto di leggerli, ma non di averne una copia), le responsabilità dei servizi segreti e quelle della Procura. In più, al di là di eventuali reati c’è la possibilità che per Lo Voi arrivi una sanzione disciplinare – che potrebbe partire direttamente dal ministero della Giustizia.
Le tensioni tra 007 e lo scontro con la magistratura
Ma resta la questione politica. È più unico che raro che i servizi segreti denuncino pubblicamente, con un esposto, il comportamento del procuratore di Roma. Lo ha fatto Rizzi, scelto dal governo Meloni come sostituto di Elisabetta Belloni, che ha rassegnato le dimissioni a gennaio in modo inatteso.
Che qualcosa stia avvenendo, all’interno dei servizi segreti italiani, sembra averlo segnalato anche il vicepremier Matteo Salvini, quando ha parlato di “regolamenti di conti all’interno dei servizi di intelligence” in relazione al caso Paragon. La Lega ha poi smentito in parte le parole del suo segretario, facendo marcia indietro, ma il riferimento resta.
Da alcuni mesi (il caso dossieraggi, le presunte tensioni tra il ministero della Difesa e l’Aise, il caso di Cecilia Sala, la vicenda Almasri) sembra esserci fermento tra i vertici degli 007. Ieri, alla Stampa, il senatore Matteo Renzi ha detto che Giorgia e Arianna Meloni “vedono complotti ovunque: hanno scatenato una caccia all’uomo nelle Agenzie, un ‘dagli all’untore’ assurdo”. Non ci sono conferme esterne, ma l’esposto presentato dal Dis sembra un nuovo passo nel ‘coinvolgimento’ dei servizi segreti nello scontro.
Lo Voi è stato il vero catalizzatore che ha messo in moto tutta la boiata che ha permesso la scarcerazione del libico. Ora stanno solo cercando un modo per farlo uscire di scena. La vera questione da assodare è una e sola: l’ordinanza di Lo Voi era legale?
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In più, al di là di eventuali reati c’è la possibilità che per Lo Voi arrivi una sanzione disciplinare – che potrebbe partire direttamente dal ministero della Giustizia.
Ah, ecco. A proposito di conflitti d’interessi.
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Libertà di stampa? Una barzelletta, ma senza risate. Il caso Paragon e l’allergia cronica del potere alle domande scomode
Gianni Magini
Ah, la libertà di stampa. Quella cosa che tutti citano, pochi capiscono e ancor meno difendono. Quella che, in teoria, dovrebbe essere il pilastro di ogni democrazia degna di questo nome, ma che, in pratica, è diventata il bersaglio preferito di governi, servizi segreti e potentati vari. E no, non stiamo parlando di qualche regime autoritario lontano, ma di casa nostra, l’Italia, dove l’aria si fa sempre più pesante per chi osa fare il proprio mestiere: il giornalista.
Eccoci qui, ancora una volta, a parlare di un governo che sembra avere un’allergia cronica al giornalismo libero. Un’allergia che si manifesta con starnuti di censura, pruriti di controllo e crisi respiratorie ogni volta che qualcuno osa fare una domanda scomoda. L’ultimo episodio? Il caso PARAGON, un nome che suona come un cattivo di un film di James Bond, ma che in realtà è un’azienda israeliana specializzata in software di sorveglianza. Software che, secondo quanto emerso, sarebbe stato usato dai servizi segreti italiani per spiare giornalisti scomodi. Tra questi,
Cancellato, direttore di Fanpage, un giornale che ha il vizio (o la virtù, dipende dai punti di vista) di fare inchieste che non piacciono al potere.
Ora, la ciliegina sulla torta: la stessa Paragon ha deciso di ritirare il contratto con l’Italia. Motivo? Il software sarebbe stato usato per scopi diversi da quelli previsti. Tradotto: avete esagerato, cari italiani. Avete preso uno strumento che doveva servire per combattere terrorismo e minacce alla sicurezza nazionale e lo avete usato per ficcare il naso nelle chat di chi vi dà fastidio. Tipo i giornalisti che fanno il loro lavoro. Complimenti, davvero.
E qui entra in scena il nostro caro Giovanni Donzelli, che con la grazia di un elefante in una cristalleria ha pensato bene di mettere sullo stesso piano giornalismo e spionaggio. Sì, avete letto bene: secondo lui, se un giornalista viene spiato, beh, è un po’ come spiare un nemico dello Stato. Una logica che farebbe rabbrividire anche Orwell. Ma andiamo, Giovanni, davvero? Vuoi paragonare chi cerca la verità a chi trama nell’ombra? Vuoi mettere sullo stesso livello chi denuncia i potenti e chi li protegge? Se questo è il tuo concetto di democrazia, allora siamo messi male. Molto male.
Perché, vedete, il giornalismo – quello vero, non quello che si limita a fare da megafono al potere – vive di una cosa sacra: la segretezza delle fonti. Senza riservatezza, senza la certezza che un whistleblower (uno che denuncia atti illeciti) possa parlare senza finire nel mirino, non c’è inchiesta che tenga. Non c’è democrazia che funzioni. Se un giornalista non può garantire protezione a chi gli fornisce informazioni, il sistema collassa. E con esso, la possibilità di sapere cosa davvero accade dietro le quinte del potere. Lo sa bene Giacomo Salvini, autore del libro appena uscito (e già in ristampa!) “Fratelli di Chat”, che squarcia un velo su cosa si sono detti negli ultimi circa 5 anni gran parte dei membri di Fratelli d’Italia, e che sta scatenando un gran polverone.
Ma non è solo l’Italia. Il caso Paragon è solo la punta dell’iceberg di una situazione drammatica a livello mondiale. Come presidente di
AllertaMedia, non posso che lanciare un forte ALLERTA MEDIATICO: la libertà di stampa è sotto attacco, e non è un’esagerazione. È un dato di fatto. Guardate cosa sta succedendo in Europa, dove la censura e la persecuzione dei giornalisti liberi sono ormai all’ordine del giorno.
Prendete CraigMurrayOrg, ex diplomatico britannico e giornalista indipendente: la sua casa è stata perquisita, i suoi dispositivi sequestrati. Perché? Per aver fatto il suo lavoro, per aver raccontato verità scomode. O Richim Medhurst, arrestato e perseguitato per le sue inchieste, anche di recente, solo perché osa mettere in discussione le narrative ufficiali. E non dimentichiamoci di Julian Assange, il simbolo di questa guerra al giornalismo: un uomo perseguitato e senza libertà per 14 anni, che ha rischiato 175 anni di carcere per aver rivelato crimini di guerra degli USA, e adesso libero solo su patteggiamento. Per questo gli attivisti a livello mondiale stanno chiedendo a Trump il perdono, in modo da riportare nel giusto la chiusura di questa causa-farsa.
Ma gli esempi non finiscono qui. In Europa, la situazione è sempre più critica. Pensate a Erol Önderoglu, rappresentante di
RSF_inter in Turchia, arrestato per “propaganda terroristica” solo per aver difeso la libertà di stampa. O a Ivan Golunov, giornalista russo, arrestato e picchiato per le sue inchieste sulla corruzione. E non dimentichiamoci dei giornalisti che lavorano in zone di conflitto come l’Ucraina e la Palestina: lì, essere un reporter non significa solo rischiare la vita, ma anche essere etichettati come “nemici” da governi e milizie. Per l’Ucraina, possono spiegarcelo bene Andrea Lucidi e DonbassItalia. Come del resto fa in maniera professionale e approfondita Alessandro Orsini, sia per la situazione Ucraina che per quella Palestinese.
La verità è che il giornalismo, quello vero, è sempre più spesso sostituito da una macchina di propaganda che manipola la realtà per servire gli interessi dei potenti. I media mainstream, troppo spesso, non sono più il cane da guardia della democrazia, ma il cane da compagnia del potere. E quando la stampa diventa un’arma di distrazione di massa, la domanda sorge spontanea: se i media ci raccontassero davvero la verità, le elezioni le vincerebbero le stesse persone?
Julian Assange lo ha detto chiaro e tondo: “Tutte le guerre degli ultimi 50 anni sono frutto delle bugie dei media”. Pensateci. Pensate a quante decisioni, quante guerre, quanti governi sono stati giustificati da narrative costruite ad arte. E ora pensate a cosa succederebbe se quelle bugie non trovassero più terreno fertile.
La soluzione? Non è semplice, ma inizia da noi. Da ognuno di noi. Informiamoci di più e meglio. Selezioniamo le fonti, confrontiamole, leggiamo più libri. Supportiamo i giornalisti indipendenti, quelli che ogni giorno rischiano la loro sopravvivenza – e a volte la loro vita – per accendere un riflettore dove i governi vorrebbero il buio. E, già che ci siamo, prestiamo più attenzione a come usiamo internet e i social. Proteggiamo la nostra privacy, perché in un mondo dove tutti siamo sorvegliati, la libertà è la prima vittima.
La libertà di stampa non è un lusso. È una necessità. E se non la difendiamo, non ci resterà nemmeno la libertà di lamentarcene.
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