
(economist.com) – Ci sono diversi modi per guardare all’inaspettata offerta da 13,3 miliardi di euro che il Monte dei Paschi di Siena (MPS) ha fatto per Mediobanca il 24 gennaio. A prima vista, testimonia un notevole recupero da parte di MPS, la banca più antica del mondo, salvata dallo Stato italiano nel 2017 al costo di 5,4 miliardi di euro.
Se il tentativo di MPS di acquistare la principale banca d’investimento italiana venisse accettato, l’operazione porterebbe a un gradito consolidamento del frammentato settore bancario italiano.
Ma c’è anche un altro modo di guardare all’offerta. In un Paese in cui politica e denaro si sovrappongono in misura insolita, è forse il più utile. Si pensi a cosa significherebbe l’accordo per Giorgia Meloni, primo ministro italiano.
In breve, potrebbe estendere l’influenza della sua coalizione di destra su non una, ma due delle più importanti istituzioni finanziarie italiane. L’offerta di MPS è il secondo tentativo del governo di creare un rivale per le “due grandi” banche italiane: Intesa Sanpaolo e UniCredit.
A novembre i ministri hanno preparato il terreno per un’unione tra MPS e Banco BPM, un altro istituto di credito commerciale, che è deragliata quando UniCredit ha presentato la propria offerta per Banco BPM.
Per rispettare le regole dell’UE, lo Stato italiano ha perso la maggior parte della sua partecipazione in MPS dopo il salvataggio. Tuttavia, rimane il maggiore azionista con quasi il 12% del capitale totale.
Inoltre, parte di ciò che ha venduto è stato acquistato da due investitori che sono stati ripetutamente al suo fianco nelle battaglie nei consigli di amministrazione: Francesco Milleri, che gestisce Delfin, un fondo d’investimento della famiglia di Leonardo Del Vecchio, defunto magnate dell’occhialeria, e Francesco Gaetano Caltagirone, un ottuagenario magnate dell’edilizia e dei media che è considerato vicino alla Meloni, una concittadina romana. Entrambi hanno partecipazioni in Mediobanca, e Delfin è il maggiore azionista della banca. Né Caltagirone né Milleri sono fan di Alberto Nagel, il capo della banca.
Gli analisti della banca britannica Barclays stimano che, se l’offerta dovesse andare a buon fine, il Tesoro e gli alleati del governo deterrebbero più del 26% della nuova entità, una quota sufficiente per il controllo.
Ma avrà successo? Agli investitori di Mediobanca sono state offerte 23 nuove azioni di MPS per ogni dieci possedute nella banca target. Anche prima del crollo del prezzo delle azioni di MPS in seguito alla divulgazione dell’offerta, ciò rappresentava un frugale premio del 5%. Mediobanca calcola che al 27 gennaio era diventato uno sconto del 3%.
In una nota di sfida, gli amministratori della banca target hanno respinto l’offerta in quanto “fortemente distruttiva del valore”. MPS sostiene che l’assorbimento di Mediobanca libererebbe 700 milioni di euro all’anno di risparmi, rappresentando quella che Luigi Lovaglio, amministratore delegato di MPS, descrive come “un’incredibile opportunità strategica”. Gli analisti non sono convinti. Temono che qualsiasi guadagno possa essere compensato dallo scontro culturale che deriverebbe dalla fusione di una banca d’affari con un prestatore retail.
Alcuni si sono anche chiesti se il vero obiettivo dell’operazione sia l’influenza su Generali, la più grande compagnia di assicurazioni italiana, di cui Mediobanca è il maggiore investitore.
Anche in questo caso, Delfin e Caltagirone hanno già quote consistenti e sono ancora una volta uniti nelle critiche al management. Il governo è un altro critico: si è opposto al progetto di Generali di unire le forze con Natixis, una società francese di gestione degli investimenti, temendo che possa portare all’allocazione dei risparmi italiani da parte di finanziatori stranieri.
Un’acquisizione di Mediobanca da parte di MPS amplierebbe quindi una matassa di partecipazioni incrociate che comincia ad assomigliare a quella che in passato concentrava il potere in una ristretta cerchia di potenti milanesi.
Una tela che fu disfatta da Mario Monti nel 2012. Monti, che è stato primo ministro solo due anni, credeva nel libero mercato. La Meloni, invece, è leader di un partito nazionalista con istinti protezionistici.
Cerchiamo di spiegare in modo semplice la vicenda.
Gli attori protagonisti sono Mediobanca da un lato e MPS ,nelle persone di Caltagirone, Del Vecchio con la sua Delfin guidata da Milleti ed il MEF guidato (purtroppo) dal ministro pro tempore Giorgetti; questo sul piano formale.
Sul piano sostanziale Caltagirone e Delfin hanno partecipazioni in entrambi gli istituti; segnatamente il duo ha una quota del 15% in MPS e del 29% in Mediobanca.
I numeri possono sembrare noiosi, ma okkio al trucco.
I punti di partenza sono i seguenti:
MPS ha un valore del 70% del patrimonio, Mediobanca ne vale 120; uno sgombro che vuole mangiarsi il pescespada.
MPS ha una redditività del 10% contro il 13,5%; un costo del debito più alto, i rispettivi crediti default swap valgono 133 contro 53 e una maggiore esposizione al rischio di credito di 78 MLD contro 54.
La scalata avrebbe dovuto essere fatta INTERAMENTE IN AZIONI (si tratta infatti di una OPS, non di un’OPA).
Azioni di quella che vale meno in cambio di quella che vale di più.
Può avere una logica una cosa del genere?
Chi è quel fesso che cede qualcosa che vale di più per prenderne una che vale di meno?
In Italia la risposta è semplice: Pantalone.
L’operazione ha avuto una perdita potenziale IN UN SOLO GIORNO di ben 68 MLN di euro per pantalone; Caltagirone e Delfin hanno si perso con MPS; ma hanno guadagnato con Mediobanca.
Fortuna per pantalone, vuole che l’operazione non stia andando a buon fine.
Finita qui? No
Lo scopo di Caltagirone e Delfin è quello di acquisire una partecipazione maggiore in Generali e per fare questo ha bisogno di una quota maggiore in Mediobanca; cosa ci guadagnerebbe il MEF?
Generali ha ridotto la sua esposizione in BTP da 80 MLD pre- crisi ai 37 attuali; molto probabile che il do ut des col MEF sarebbe stato quello di un acquisto maggiore di BTP così da poter far dire alla Meloni che il nostro debito pubblico è appetibile; cosa per altro già successa visto che qualche quotidiano di regime, pieno di fierezza, ha titolato che il Fondo sovrano norvegese detiene ben 8 (miseri) MLD in titoli di stato ca pummarola ‘ncoppa.
In buona sostanza, se l’operazione andasse in porto, lo scenario sarebbe il seguente
Caltagirone e Delfin si pappano Generali acquistano(forse) più titoli di stato su cui guadagnano non solo finanziariamente ma anche in influenza politica, pantalone paga il conto e Giorgia fa la figa.
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