VENEZIANI, IL REAZIONARIO SADOMASOCHISTA

(Francesco Melchionda – perfideinterviste.it) – Nel desolante panorama culturale della nostra destra – sempre più famelica di incarichi e nomi da piazzare, ma al contempo, arida di idee e contenuti di natura intellettuale – spicca il nome di Marcello Veneziani che, con i suoi scritti spesso polemici, e in compagnia di pochi altri battitori liberi, è uno degli ultimi moschettieri a rendere animato e frizzante il dibattito nel torbido mondo delle lettere.

Così, nell’universo destrorso, che si tratti di grandi nomine per la guida di ministeri o enti culturali, o editoriali da compulsare, o libri da acquistare, gira che ti rigira il nome di Veneziani è sempre il primo che ti viene alla mente, chissà perché…

Mi son detto: con questa armata Brancaleone al governo, non sarà giunto il momento di incontrarlo e tratteggiare la figura del maître à penser di destra?

Intervistare Veneziani non è stato per nulla facile, diciamolo subito. Quando mi sono presentato al telefono, mi ha chiesto subito chi fossi e per quale testata scrivessi.

Ovviamente il sito www.perfideinterviste.it non lo conosceva. Ha nicchiato, all’inizio, e mi ha rimandato ad altre date, periodi, ma il suo nome, nonostante i mesi volassero, frullava sempre nella mia testa. Così ho insistito e in un gelido pomeriggio romano, nel cuore della bolgia trasteverina, Veneziani, pur con fare sornione e circospetto, tipico di un gatto allergico agli sconosciuti, si è sottoposto ad un interrogatorio durato circa due ore.

Ha una certa ritrosia a parlare dei cazzi suoi, ma del resto con oltre cento conferenze all’anno, in giro per l’Italia a raccontare i suoi maestri, le sue fisime e le idiosincrasie per la cultura ufficiale, tenerlo qualche ora fermo su un divano è opera faticosa…

Nonostante un velo di superbia, qualche diplomazia e piccole reticenze, l’uomo di Bisceglie ha voluto sistemare un po’ i conti (in primis con sé stesso facendo qualche mea culpa), svelare ambiguità, ridimensionare certi idoli e certe mode della sinistra, e prendere meritoriamente a sberle qualche destroide. E, giunto al suo crepuscolo anagrafico, sono sicuro che qualche suo libro, o più semplicemente un articolo, ci daranno ancora da pensare…

* * *

Marcello Veneziani, pugliese, settantenne, o quasi, se non sbaglio. Che ricordi ha della sua Puglia, di quando, insomma, era un brutto anatroccolo?

Dei ricordi molto vivi, anche perché gli anni più significativi sono quelli iniziali. Ora che mi ci fa pensare, come non ricordare il mare di Bisceglie, le partite di calcio interminabili, il mio tifo per la Fiorentina e, ovviamente, la mia famiglia, per la quale ho sempre avuto una venerazione assoluta. È tutto un mondo, quello che le ho appena descritto, che ti rimane conficcato per sempre.

Chi erano i suoi genitori?

Mio padre era uno studioso di Filosofia e un preside di liceo, mia madre, invece, dopo aver insegnato Lettere, si ritirò perché, nel frattempo, doveva allevare quattro figli. Se devo rimproverare loro qualcosa è che mi assecondavano in tutto.

In che senso? Preferiva le catene, e il controllo asfissiante?

Col senno di poi dico che avrebbero dovuto a volte indirizzarmi, saper dire qualche no, e invece mi lasciavano fare, erano molto permissivi, anche se io non ho abusato della libertà.

Da chi ha imparato di più?

Nessuno dei due con me ha fatto l’insegnante e l’educatore, però il loro esempio, il loro modello, i libri che avevamo in casa, l’aria che respiravo, mi hanno lasciato un’impronta. Soprattutto l’esempio paterno. Non a caso, poi, mi sono laureato in Filosofia, seguendo un po’ il suo percorso, la sua inattitudine alla vita pratica e al saperci fare e pure le sue passioni: il calcio, il mare, la campagna, la frutta… Per il resto ho preso da mia madre.

Quando ha capito che doveva togliersi dalle palle e fuggire nella grande metropoli?

In realtà, l’ho capito prestissimo, nel senso che volevo fare qualcosa che, come può ben immaginare, era incompatibile con lo stare nel piccolo paese. L’idea di Roma, quindi, mi è venuta molto presto. La prima aspirazione era quella di fare il calciatore, ma, essendo un calciatore fallito, ho ripiegato sul giornalismo, sulla scrittura e, naturalmente, sul pensiero. Non riuscii come ala sinistra, così ripiegai sulla mente destra.

Perché le stava sul cazzo il Sessantotto? Per mero principio?

Sin da quando c’era il Sessantotto, io mi sentivo istintivamente dall’altra parte. Quando, ad esempio, vidi i contestatori che lanciarono le uova fuori dal Teatro della Scala, io feci un tema a scuola in cui scrissi che le uova marce non sono delle idee. La differenza tra me e loro era essenzialmente questa: loro contestavano i loro padri, io contestavo il mio tempo.

Si sentiva già vecchio, allora…! Più di quanto non lo sia ora…

Mi sentivo già saggio, che è diverso. Ma sognavo a mio modo rivoluzioni, conservatrici, trasgressioni ma nel senso opposto della tradizione…

Chi non sopportava di quella generazione sinistrorsa che, poi, ha fatto carriera, spesso senza meriti, e nei giornali e nelle università?

Non ho mai avuto avversioni di tipo personale; era il tipo umano che mi dava fastidio, ed erano troppi, francamente. Col tempo, alcuni di questi li ho anche conosciuti e i rapporti, poi, sono anche cambiati, diventando delle amicizie, pur nel legittimo dissenso che ancora oggi persiste.

Tipo?

Mughini, Cacciari, Tronti, Cassano, Mario Capanna, tanto per fare degli esempi…

Da dove nasce il suo amore per gli intellettuali conservatori, emarginati? Si identificava con la loro storia? O, perlomeno, provava a farlo…

Tutto, probabilmente, è nato col Sessantotto. Ero diventato un contestatore dei contestatori che si opponevano all’autorità, ai padri, alla tradizione; per me, era un buon motivo per leggere e capire tutto quello che veniva da loro criticato e contestato. Mi sono innamorato di certi autori, quindi, andando controcorrente. Più erano maledetti e più mi incuriosivano. Mi laureai in filosofia con una tesi su Julius Evola… Inevitabile, amando certi autori, considerare i miei contemporanei dei pigmei rispetto ai giganti del passato.

Lei, Tarchi, Cardini, Solinas, e pochissimi altri, siete, da tempo, i cantori di una cultura conservatrice, avventuriera, un po’ anarcoide, che, in Italia, fa fatica a sedimentarsi. Dove sbagliate? Mancate di autorevolezza? Non può sempre essere colpa della sinistra…!

Abbiamo itinerari diversi, non uniformi; e il potere culturale, in Italia, è rimasto nelle mani di un ceto proveniente dal mondo marxista, progressista e radicale. Io ho sempre detto che chi veniva definito intellettuale di destra aveva un problema doppio perché a destra non ti perdonavano di essere intellettuale e fra gli intellettuali non ti perdonavano di essere di destra. Per tutta la vita ho vissuto un disagio bilaterale.

In questo bilateralismo, lei più masochista o sadico?

Diciamo che le due parti convivono in perfetto equilibrio. Le due tendenze mi piace coltivarle contemporaneamente, nella speranza che gli opposti si annullino a vicenda…

In una recente intervista, ha parlato di mafia culturale perpetrata dalla sinistra…

Sì, confermo. Mi riferisco in particolare ai criteri di selezione nelle università, nell’editoria, nella stampa, nelle giurie e nei premi letterari. E i criteri di selezione sono di tipo mafioso perché prescindono dalla qualità dei tuoi scritti, conta l’affiliazione, la cosca di riferimento, gli amichetti. Sei considerato da loro un oggettivo ostacolo, un nemico da cancellare o da ignorare.

C’è ancora questa mafia, secondo lei?

Assolutamente sì, e non dico nulla di nuovo. Già duecento anni fa ne parlava Leopardi, è una consorteria, una camorra letteraria, e ideologica…

Anche lei, quindi, è vanitoso al punto da bramare premi che, ad essere onesti, non fanno guadagnare un cazzo?

No, francamente, ai premi – come dice Petrolini- non ci tengo né “ci tesi mai”.

A Sabelli Fioretti ha detto, nel lontano 2006, che la parola fascista le piaceva, perché le dava l’idea di libertà e trasgressione. Era solo un modo, il suo, di fare l’inutile bastian contrario?

Era un modo per rappresentare il mio spirito controcorrente rispetto agli altri; non sono mai riuscito a separare questa diversa lettura del fascismo dall’idea di libertà. Probabilmente, ho detto più volte, se fossi nato e cresciuto sotto il regime fascista, sarei stato un dissidente o un antifascista. Dubito che molti degli antifascisti di oggi sarebbero stati antifascisti in quell’epoca. Forse questa è la differenza.

Amava la trasgressione intellettuale, la libertà, autori incendiari, e poi, però, ha iniziato a lavorare per il Tempo, diretto da quel democristiano di Gianni Letta, tutto l’opposto di quello che sentiva e cercava… Incoerenza allo stato puro…!

Ma no, affattoIl Tempo era un giornale conservatore, ed era uno dei pochi quotidiani in cui potevano scrivere persone che la pensavano come me. Le pagine culturali del giornale, guidate da Gianfranceschi, erano fatte bene, con delle firme illustri, a partire da Augusto del Noce.

Qual è stata l’esperienza più fallimentare che ricorda, negli anni in cui ha scritto e fondato giornali, settimanali?

Nei giornali, nessun fallimento in particolare. Sono state tutte esperienze che hanno avuto un senso e hanno lasciato un segno, almeno su di me. Sono andato via spesso dai quotidiani per scelta, per inquietudine, per il gusto di andare controcorrente. Mi sentivo uno straniero un po’ dappertutto, un homeless del giornalismo; in altre, invece, sono stato defenestrato. Non mi sono mai pentito di nulla, neanche quando ho scritto sull’Unità, su Repubblica…

Che c’entrava lei, con Repubblica? Anche lei uno dei tanti cortigiani di Scalfari?

Furono loro a contattarmi, in realtà. Antonio Polito, che all’epoca era uno dei vicedirettori del giornale, su incarico di Scalfari, mi chiamò per propormi una collaborazione. Io scrissi per un annetto, anche articoli abbastanza scandalosi per la Repubblica, come la mia difesa di Pasolini reazionario antimoderno, che fu criticata sul Corriere della sera da Maria Antonietta Macciocchi ed Enzo Siciliano. Erano tempi abbastanza trasgressivi, in cui erano possibili questi incroci pericolosi. Poi arrivò Ezio Mauro e tagliò queste eresie, rialzò i muri tra destra e sinistra.

Come mai? Chi glielo comunicò?

Mi avevano commissionato un articolo per il Venerdì, io l’avevo scritto, mi telefonò un redattore, credo che fosse Recanatesi, per revocarmi la richiesta dell’articolo e dunque s’interrompeva la collaborazione.

Ha passato una vita a provare a seminare dubbi, incertezze esistenziali, e poi finisce per collaborare con un quotidiano che si chiama “La Verità”. Eufemisticamente parlando, una scelta bizzarra, la sua… O no?

Chiaramente, non sono io a decidere le testate su cui scrivo: io rispondo solo dei miei contenuti. Certo, nessun giornale può definirsi La Verità, se non con una certa dose di ironia, alludendo alla Pravda sovietica..

Beh, Belpietro, con quel ghigno e quella faccia, tutto è fuorché ironico o autoironico…

Magari, è stato involontariamente ironico…

Le piace come giornale, o vi scrive solo per sfamarsi?

Fondamentalmente è un giornale libero, anche se non sempre sono d’accordo. Ad oggi, però, è il giornale che riflette e rispecchia di più le mie opinioni.

Non le sta sulle palle Belpietro?

No, ho un buon rapporto con lui; devo dire che i migliori rapporti con i direttori sono quelli inesistenti. Tutto va a ruota libera, con tacito assenso.

Tipo?

Con Feltri siamo andati d’amore e d’accordo per tanti anni semplicemente non sentendoci, non vedendoci, non confrontandoci.

Giano Accame ha detto che lei è il Prezzolini della nuova generazione. L’avrà detto per amicizia nei suoi confronti? O è una vera e propria puttanata?

Nessuna delle due, era realmente convinto, me lo diceva anche in privato e dopo aver fatto delle conferenze insieme.

Però lei, a differenza di Prezzolini, non è assolutamente un apota?

Invece, ora che ci penso, un po’ lo sono stato, perché non mi sono mai identificato con nessuno e in nessuna cultura politica che poi è diventata cultura di governo.

Come mai finì nel cda della Rai? Altro fallimento? Non c’entrava niente con la televisione, lei sempre così chino sui libri…!

In realtà, stavo facendo da poco un programma, anche con buoni ascolti, su Rai2. Come un fulmine a ciel sereno, mi arriva la chiamata in cui mi si annuncia la nomina nel Cda come consigliere. Illusoriamente, accettai perché pensavo di poter incidere e fare qualcosa di utile per la Rai. Credevo ancora a una riforma culturale della Rai. Fu un triennio, in verità, molto operoso ma alla fine trascorso invano perché tutto finì nel dimenticatoio. Mi sono pentito tantissimo di aver fatto quell’esperienza perché quando stai in Rai hai un’immagine davvero negativa…

Perché?

Perché ti considerano un satrapo, un privilegiato, un satiro che si fa tutte le donne che passano da Viale Mazzini.

Chi la chiamò per farle questa proposta sciagurata?

Mi chiamarono prima Fini, poi Casini, infine la comunicazione ufficiale a nome di Pera, presidente del Senato, me la fece il suo assistente, Gaetano Quagliariello. I primi due mi dissero che si era deciso di fare un cda di intellettuali, rappresentanti le aree culturali, presieduto da Paolo Mieli, che poi rinunciò; io avrei rappresentato l’area di destra. Fini aggiunse pure, e per una volta fu sincero, che lui avrebbe preferito un altro criterio, non quello delle aree culturali, ma scelto quello avevano optato per me.

Che rapporti ebbe con una sinistroide come la Annunziata, che, in quel Consiglio, era addirittura la presidente?

Buoni, finché restò alla presidenza, subentrando a Mieli. Poi si dimise in malo modo, accusando il governo, il cda stesso con cui collaboravamo bene. In seguito scoprimmo che aveva siglato sin dall’inizio un contratto col Ministero competente che non portò mai in cda, in base al quale aveva la facoltà di dimettersi riscuotendo però l’intero importo di tutto il suo mandato, io lo scoprì e lo pubblicai sui giornali, nel silenzio assordante di tutti i media…

Come finì?

A lei fu bloccato l’importo non dovuto, che poi recuperò quando gli fu affidato il programma in tv, e fu pagata anche per i diritti d’autore sul format.

Chi erano quelli che hanno cercato, allisciandola e leccando le sue pantofole, una sua sponda, per raccomandare troie travestite da soubrettes o incompetenti?

Ci hanno provato in molti, ad essere sincero, ma non hanno trovato terreno fertile. Una delle cose più belle che ricordo di quel periodo è stato quando uscì una intercettazione sui giornali…

E quindi?

Due persone importanti, che per carità di patria non voglio citare, parlavano di come piazzare delle persone in Rai. Ad un certo punto uno dice all’altro: è inutile che ci provi con Veneziani perché tanto “lui pensa solo ai cazzi della cultura,” nel senso che non mi occupavo di nomine, o di attricette ma di strategie, di nuovi canali, di politiche culturali…

I più famelici erano a destra o a sinistra?

Ugualmente ripartiti perché alcuni lo erano in quanto storicamente abituati, altri perché storicamente affamati…

Sì, però, stando in Rai, sarà diventato all’improvviso bello e affascinante. O no? Ne avrà avute di sbandate, suvvia…

Non ho mai confuso i due piani, ho continuato a frequentare chi già frequentavo prima di essere consigliere.

Avrà avuto qualche delirio di onnipotenza?

Il delirio no, ma la sensazione di avere un certo potere, sicuramente sì.

I suoi libri, sebbene interessanti, non vendono alla maniera di Cazzullo; sui giornali si guadagna poco. Come fa a campare? È ricco di famiglia, vive di stenti, si fa mantenere?

Non sia così tragico, editori e giornali mi trattano decorosamente. Riesco a vivere anche grazie all’attività di autore, e a vivere anche bene. Faccio una saggistica totalmente diversa da quella di Cazzullo, non si possono paragonare i generi; nel mio genere vendere in media diecimila copie a libro non è poco.

Non le piace la saggistica di Cazzullo?

È un altro tipo, la sua è un’editoria commerciale che non toglie libri alla cultura alta, ma si rivolge a non lettori o ipo-lettori, un pubblico diverso. Anche nell’editoria c’è la scuola elementare e poi c’è il liceo, l’università…

Non leggerebbe mai i libri di Cazzullo?

Non posso leggere tutto e di tutto, devo essere selettivo; non sono oggettivamente interessato a quel tipo di saggi divulgativi.

Prova invidia dinanzi al suo successo editoriale?

Perché dovrei? Abbiamo finalità diverse, ci rivolgiamo a piani diversi, è come se invidiassi Sinner…Ma se non gioco a tennis, che c’entra?

Che rapporto ha con il denaro?

Ho un rapporto da realista e da contadino. Il denaro, per me, è un mezzo, utile, concreto, per comprare casa, fare viaggi, acquistare oggetti e libri. Il potere finanziario non mi ha mai interessato, a vanità nemmeno. Auto, gioielli, lussi vari non mi riguardano.

In un divertente e simbolico gioco della torre, che Sabelli Fioretti le ha fatto, ha detto: “Butto Mughini perché è juventino e poi perché ha quelli occhiali che danno fastidio alla mia vista”. Lo trova ancora insopportabile, Mughini?

Ma no, era una battuta amichevole, non mi era insopportabile neanche allora. Come ho detto anche prima, Giampiero, sebbene distante da me intellettualmente e culturalmente, è un caro amico, nonostante ci si veda e senta pochissimo. Gli voglio bene.

Quali suoi libri ha apprezzato?

Quello su Telesio Interlandi lo trovai interessante, e altri tre o quattro libri, mi piace il suo collezionismo, i suoi Amarcord, il suo amore per i libri. Sono ovviamente testimonianze di un giornalista, ma di un giornalista colto.

Non lo considera un intellettuale?

Certo, un giornalista intellettuale, non penso che lui si giudichi diversamente, un opinionista versatile, dalla Storia del Novecento al calcio, dal libro agli show televisivi.

Che talento ruberebbe a Giordano Bruno Guerri?

Siamo molto diversi, abbiamo intrapreso strade opposte, gli riconosco il pregio di aver scritto delle biografie molto belle, penso a quella su Bottai, Marinetti, Mussolini e D’Annunzio. Detto questo, non gli ruberei nessun talento! Lui frequenta la storia, io il pensiero; abbiamo inclinazioni diverse.

C’è un intellettuale che invidia in Italia?

No, e anche se non me ne rendo conto, magari cova in me un’implicita presunzione, con punte di mitomania…

Quali sono i libri più brutti che ha scritto?

Brutti non so ma quelli più vicini alla politica non li ripubblicherei, anche quelli che ebbero tanto successo, come La cultura della destra; non li scriverei di più… Mi pare tempo perso!

Me ne dica alcuni, su, che cestinerebbe?

No, cestinarli no, ma ho lasciato cadere nell’oblio alcuni libri giovanili, e il suddetto libro che mi commissionò Laterza e andò in classifica ai primi posti per varie settimane.

Da anni, i suoi libri sono pubblicati dalla Marsilio. Come mai Adelphi l’ha sempre snobbata? La consideravano un intellettuale minore, troppo “fascio”? Eppure, le vostre traiettorie non sono poi così distanti.

Non so, bisognerebbe chiederlo a loro… Probabilmente il mio marchio intellettuale era considerato incompatibile. In fondo, Adelphi ha saputo navigare bene nei mari della cultura italiana: pubblicava autori importanti, ma mai al punto che potessero offrire il fianco e si potesse dire: ah, si è spostata a destra… Ha preferito navigare tra autori impolitici, ed io ero invece percepito come autore impegnato sul piano (meta)politico.

Quali direttori, nella sua lunga carriera da editorialista, ha disprezzato? Chi è stato quello più liberticida?

Ho scritto su una marea di giornali, e mi sono legato lungo la mia vita a cinque sei giornali, dunque sono stato infedele o epurato. Probabilmente, ho avuto più problemi con gli editori che con i direttori. I direttori forti mi hanno sempre lasciato libero.

Come mai Alessandro Sallusti, nel 2015, la licenziò dal Giornale? Lei, cosa aveva combinato?

Io, nulla, in realtà. Formalmente non si trattava di un licenziamento, ma di un prepensionamento per lo stato di crisi del giornale; nella pratica fu un vero e proprio siluro perché esprimevo posizioni non proprio omogenee rispetto al berlusconismo. L’unica avvisaglia che avevo avuto, prima di essere scacciato, avvenne qualche mese prima. Sallusti mi telefonò dicendo stranamente: Marcello, scrivi quello che vuoi, ma lascia stare la signora (Francesca Pascale). Ovviamente, quando me ne andai, denunciai la cosa.

Scrivendo cosa?

Dissi che non era un semplice prepensionamento ma una defenestrazione vera e propria; fino a pochi giorni prima lo stesso direttore mi diceva che la mia rubrica era la più letta del Giornale, era pieno di elogi. Poi il contrordine…

Cosa scrisse contro la Pascale di così diabolico?

Non ricordo bene, mi pare un paio di battute sui suoi orientamenti politici legati al Gay pride, qualche ironia sui cagnolini trattati allo stesso modo dei cortigiani del berlusconismo. Con Feltri, probabilmente, non sarebbe mai successo.

Reputa Sallusti un debole, quindi?

I direttori come i premier hanno vita lunga se, come si dice da noi, attaccano l’asino dove vuole il padrone. Per questo ho diretto solo giornali che ho fondato io.

Lei non sopporta i froci?

Non ho mai avuto nessun problema di questo tipo. Ho sempre contestato la rilevanza pubblica, la retorica gay e trans e il ruolo ideologico che viene dato alle battaglie omosessuali e transessuali. Ho difeso sempre la famiglia, ma non ho mai offeso i gay. L’ostentazione degli orientamenti sessuali, la creazione di lobby ad hoc, fatte per portare avanti certe sfide ideologiche, ecco, questo, non mi piace, e lo critico pubblicamente. Poi le scelte intime, personali ognuno è libero di viverle come crede.

Con quali editori ha avuto più problemi?

Berlusconi, ma solo alla fine, in passato avevo persino detto che non sarei andato a votare, criticavo il berlusconismo; poi ricordo Caltagirone, il Corriere della sera…

Lui c’è sempre: cosa aveva scritto contro Caltagirone?

Avevo assunto delle posizioni critiche contro il partito di Casini. La mia collaborazione ai suoi quotidiani saltò da un giorno all’altro, dopo che mi avevano proposto di passare definitivamente al Messaggero. Poi, ricordo, saltò per due volte il mio passaggio al Corriere della Sera…

Racconti.

De Bortoli mi convocò a Milano e mi propose di entrare al Corriere; portò la proposta all’allora Cda insieme all’assunzione di Riotta, ma la mia fu bocciata, mentre quella di Riotta, se ben ricordo, passò.

Ha mai capito chi bloccò la sua nomina?

No, non lo so, ma anche un’altra volta s’interruppe, in seguito, la mia breve collaborazione al Corsera, presumo per la stessa fonte.

Montanelli, Bettiza e Feltri, sono stati i veri grandi del giornalismo di destra o di qualcosa simile.

Feltri, forte dei risultati nelle vendite, riparava le sue firme dalle ingerenze degli editori e lasciava sempre massima libertà, al più affiancava al tuo pezzo uno di parere contrario. In quel tempo era un po’ il Bossi del giornalismo: aveva un fiuto pazzesco per gli umori popolari e i gusti dei lettori. Bettiza l’ho conosciuto poco, frequentava altri mondi. Di lui ho un ricordo particolare: una volta eravamo ad un convegno, a Genova. Venimmo a sapere della morte di Ernst Junger: lui non ne sapeva praticamente nulla, e la Stampa gli aveva commissionato un pezzo. Mi prese da parte e chiese delle informazioni: l’indomani scrisse un pezzo magistrale. Montanelli è stato il numero uno, ineguagliabile. Quando ti parlava, magari ti diceva: Pirandello mi ha detto, Hitler mi rispose.. I suoi pezzi erano musica, era bravissimo nei ritratti, anche quelli non veritieri.

Era anche un grande bugiardo, sennò ne facciamo un santino…!

A volte sì, un grande bugiardo. A volte faceva dei reportage senza essere stato realmente in quel posto, ma lui, a differenza dei colleghi che magari vi erano stati, sapeva raccontarteli meglio di quelli che gliel’avevano raccontato a lui.

Non prova vergogna, lei sempre così snob e con la puzza sotto al naso, per questa pseudo destra al governo?

Ho dei motivi di dissenso, ma non di vergogna. Questo è il clima, questa è la politica, anche altrove.

Lei è più fascista o meloniano?

Nessuno dei due. Ho un giudizio diverso rispetto a quello corrente in tema di fascismo; nei confronti della Meloni ho un’istintiva simpatia e la conosco da più di vent’anni, ma dissento per alcune scelte che ha fatto…

Tipo?

In politica estera, per esempio, nella scelta della sua classe politica, nella mancata coerenza con i programmi iniziali, salvo recuperare nei comizi; ma so bene che può restare al governo solo a quelle condizioni, altrimenti la fanno smammare. Anzi, non l’avrebbero fatta nemmeno entrare: lo scrissi sin da quando vinse le elezioni.

Non pensa che la grandissima colpa della Meloni, oltre alla sua cronica allergia alle critiche, sia quella di essersi scelta una classe dirigente imbarazzante, mediocre?

Il problema è che non ha scelto, segue il criterio della fedeltà e dell’appartenenza al suo clan. Ha una classe dirigente mediamente modesta come modesta è buona parte della compagine di governo. Ma gli avversari e gli alleati non stanno messi meglio.

È una colpa non aver scelto!

Avrebbe dovuto lavorarci prima di andare al governo, formare una vera classe dirigente, e non solo una claque di fedelissimi militanti e poco altro.

Ma se l’alternativa sono i tecnici o quelli che stanno ora all’opposizione, lunga vita alla Meloni, Giorgia for ever.

Dio, patria e famiglia, pseudo valori incarnati da una destra ipocrita e menzognera quanto la sinistra, non pensa siano delle sciocchezze, atte a ingannare gli elettori i più tradizionalisti e resistenti ai cambiamenti della società?

il problema dal mio punto di vista è opposto: sono principi troppo seri e fondamentali per usarli nel gioco politico-elettorale.

Chi ha distrutto, secondo lei, An? Fini e i suoi colonnelli, o Berlusconi e i suoi scherani?

Non ci si poteva aspettare che Berlusconi difendesse la destra, voleva solo usarla e averla a cuccia, sua fida alleata. Toccava a Fini e ai suoi colonnelli salvare An. Invece Fini voleva liberarsi sia della sua destra, del suo mondo, che di Berlusconi. E alla fine si sono liberati di lui, a partire dagli elettori.

Fu macchina del fango o vero scoop, quello del Giornale, in relazione alla casa di Montecarlo?

Fu scoop vero, su un fatto che gridava vendetta. Fu una ferita per i militanti che, per la destra e per il Msi avevano dato l’anima, il loro tempo, le loro risorse. Fu imperdonabile!

Fiuggi fu più una svolta o una porcata?

Fu una svolta, ma fatta in maniera inadeguata. All’epoca dissi che avevano espulso il fascismo con un calcolo renale, con l’acqua di Fiuggi. Ma sbagliarono calcolo. Non si può passare dal “Mussolini, statista del Novecento” a ripudiarlo in quella maniera, senza approfondire, e senza distinguere tra una fondazione che avrebbe dovuto tenere viva la fiamma della storia e dell’identità (non del fascismo) e un nuovo movimento di destra nazionale e sociale, conservatrice e comunitaria. Mancò ogni rielaborazione storica.

Tutta la sinistra che conta, compresi i trombettieri delle case editrici, è adorante e in ginocchio dinanzi ai libri su Mussolini di Scurati. Lei cosa ne pensa? Li ha letti almeno o il suo è il classico pregiudizio tipico di chi critica senza leggere e documentarsi?

Si può scrivere una biografia in più volumi, ignorando i primi quarant’anni di vita di Mussolini, quando era socialista, rivoluzionario, interventista, combattente, giornalista? Poi quanti errori, a partire dalla considerazione puramente criminale di un uomo e di un regime: come dire che gli storici che se ne sono occupati hanno perso tempo, era pura delinquenza. E se un pazzo delinquente ha goduto così a lungo del consenso internazionale, popolare e culturale, vuol dire che erano scemi e complici tutti quanti, statisti, scrittori, storici, popolo italiano? I giudizi storici vanno articolati, altrimenti si giudica da psicopatici…

Fa molto uso dei social, ormai sono la sua vetrina quotidiana… Ha paura di essere censurato? Come mai sente la necessità di scrivere in maniera così bulimica e dire la sua su ogni, come fosse un tuttologo?

Che io sia bulimico, incontinente nella scrittura è verissimo. Mi piace scrivere, forse troppo. Però quello che lei vede sui social rimbalza da quel che scrivo sui giornali, da Panorama a La Verità.

Non pensa che sparire, a volte, la possa rendere più interessante e desiderabile?

Forse, ma non ci riesco. Però faccio come Machiavelli: mi sporco nella vita quotidiana, e a volte nelle polemiche del giorno, anche se me ne occupo sempre meno; però, quando entro nel mio studio, mi spoglio da questa veste sporca, entro nel colloquio con i grandi del pensiero e scrivo libri oltre il rumore e l’affanno della quotidianità.

Ha scritto, e scrive tanto… Si è mai pentito di aver denigrato o offeso qualcuno?

A volte mi lascio prendere la mano dal gusto di una battuta o dalla vena polemica. Se ho offeso qualcuno mi pento e mi dolgo.

Quando scrive i suoi libri, c’è sempre la sensazione, a volte netta, che nella sua mente ci sia una sorta di masturbazione, come se scrivere fosse l’unica cosa che conta e che la fa godere… Mi sbaglio?

Sarà come dice lei, però, dal riscontro che ho, non è, per fortuna, un’attività solitaria, la pratichiamo in tanti, con una certa assiduità. Sarà magari una setta di… Onan, di qualche migliaio di persone, che segue e legge i miei libri.

Ezra Pound, opera di Stefano Natale

Quando si separa dalla sua prima moglie, arriva ad un passo dalla depressione, così racconta. La sua ex, addirittura, le rovina i libri, li brucia, o glieli fa sparire… Marcello, cosa aveva combinato? Si era invaghito di qualche fica nel momento in cui tutti la cercavano?

Sono quelle cose che capitano a tanti uomini, solo che la sua reazione fu esagerata, tutto si sarebbe ricomposto in modo più civile. Ci furono strascichi giudiziari e di altro genere…

Non si vergognò di averlo scritto su Libero e reso pubblico. Si espose ad una irrisione importante e ridicola…

Fu una scelta dolorosissima, ma era l’unico modo per recuperare quei libri, perché avevo vanamente fatto ricorso alle forze dell’ordine e al magistrato. E quando mi annunciava che questi libri sarebbero stati incendiati, l’unica cosa che potetti fare era quello di scriverlo pubblicamente e denunciarne lo scempio, visto che né i carabinieri né i magistrati potevano intervenire in casa. E la mattanza di libri finì, recuperai i libri. In realtà il danno era assai minore di quello che mi era stato annunciato, più simbolico che reale.

Che libri erano? Se lo ricorda?

I libri che erano stati bruciati erano per esempio le Enneadi di Plotino o il Così parlo Zarathustra di Nietzsche, libri cui tenevo in modo particolare, e lei lo sapevaMa poi tutto fu superato, dimenticato.

Da quello che ho letto, non ha mai fatto follie in amore; quando ha avuto le sue prime pulsioni sessuali?

Come tutti, nell’età dell’adolescenza, ma le prime storie le ho avute dopo i diciotto anni. A differenza di quanto dichiarano di solito gli altri, non sono stato precoce ma tardivo.

Ha sempre detto a Sabelli Fioretti che, nelle faccende amorose, oltre ad essere imbranato, è sempre stato passivo; lo è ancora?

Per certi versi, sì. La mia è un’attitudine psicologica… Nei rapporti umani sono molto fatalista, se le cose devono accadere, accadono; ho poi una ritrosia all’uso attivo del telefono, non chiamo mai nessuno, non corteggio. Sono stato sempre più inseguito, più corteggiato che corteggiatore. Forse sono anche timido…

Chi volesse, liberamente, sostenere questa piattaforma, e renderla ancora più libera
anche di girovagare per l’Italia, da oggi può…!

Arrivato all’autunno della sua vita, il cerchio si stringe sempre più; come se lo immagina il suo futuro?

Scrivere finché Dio mi dà la luce; ho un sereno rapporto con il tempo che scorre inesorabilmente, cerco di rendere fertile la malinconia dell’età grave.

Si sente già vecchio?

Sotto molti aspetti, mi sento vecchio, sì… Ma con amor fati, senza fare tragedie, lo sapevamo dall’inizio, e l’alternativa alla vecchiaia non è in fondo migliore, finché è una vecchiaia lucida e operosa…

Pensa di avere ancora qualcosa d’interessante da dire? O ci riserverà sciocchezze e puttanate?

Grazie per la considerazione…Non ho certezze, però penso di avere ancora qualcosa da dire, e da scrivere. Mi sento più saggio, più lungimirante e sereno del passato. I lettori, eventualmente, mi faranno capire quando devo smettere…