Intese – Nel 2019 il “via libera” all’accordo con Pechino. Ora il dialogo sul protezionismo

(Di Salvatore Cannavò – ilfattoquotidiano.it) – C’è un fatto poco noto che fa capire il modo diretto, spesso personale, con cui Donald Trump gestisce i rapporti internazionali, con capi di Stato e di governo. Nel 2019, l’Italia del governo gialloverde con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, con una convergenza di vedute tra M5S e Lega, decideva di firmare il memorandum noto come “Via della Seta”, l’insieme di accordi, anzi di progettualità commerciali ed economiche tra Italia e Cina. Gli Stati Uniti, per bocca del portavoce del Consigliere alla Sicurezza, Garret Marquis, intervennero per chiedere al nostro paese di “non dare legittimità” al governo di Pechino.

Ma Conte aveva inviato una lettera proprio al presidente Usa, Donald Trump, facendo leva sulla sua stessa priorità politica. Conte gli spiegò che, come lui perseguiva l’America first, a lui interessava l’Italy first e che quell’accordo era fatto per un legittimo interesse nazionale. Trump inviò una lettera in cui diceva che lo capiva e il via libera statunitense quindi ci fu di fatto. Uno scambio rapido, diretto, con un leader di cui poi avrebbe avallato la nuova nomina a Palazzo Chigi nell’agosto 2019, dopo la rottura con Matteo Salvini: “Spero che Giuseppi Conte resti primo ministro” diceva il presidente Usa in un tweet fin troppo celebrato.

Non è escluso che Giorgia Meloni punti sulla stessa duttilità trumpiana per cercare, in primo luogo, di comprendere la portata delle sue dichiarazioni riguardo ai dazi contro le importazioni dal resto del mondo. Il protezionismo trumpiano ha certamente la Cina come principale competitor, ma anche l’Unione europea potrebbe diventare un obiettivo da sacrificare.

Nel 2023, gli Stati Uniti hanno registrato un disavanzo commerciale complessivo pari a 773,4 miliardi di dollari, di cui 190 con l’Unione europea che esporta circa 560 miliardi e ne importa 370. Secondo i dati Eurostat il paese in testa alle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, con ampio margine, è la Germania, con un flusso di oltre 157 miliardi di euro. Seguono l’Italia e l’Irlanda, con 67,3 e 51,6 miliardi di euro. I tre paesi vantano quindi circa la metà dell’export in Usa. La Francia segue poi con 43,9 miliardi di euro, i Paesi Bassi con 40,5 miliardi di euro, il Belgio con 31,3 miliardi di euro e la Spagna con 18,9 miliardi di euro. Che la situazione sia molto delicata è confermato dalle parole di una delle figure più rilevanti dell’establishment finanziario tedesco, Isabel Schnabel, membro del Comitato esecutivo della Bce, secondo cui una guerra commerciale con gli Stati Uniti “è molto probabile”.

In realtà, il Wall Street Journal ha ieri dato la notizia che Trump , contrariamente alle dichiarazioni dei giorni scorsi, “non imporrà dazi nel suo primo giorno di presidenza”. E nel discorso presidenziale si è capito che la questione prenderà ancora qualche tempo. Ma la notizia, in ogni caso, è stata accolta da una scivolata del dollaro che ha perduto l’1,3% contro l’euro.

Certezze non ne esistono e Meloni sta lavorando per capire le ripercussioni sull’economia italiana. Secondo Confartigianato, infatti, “l’Italia sarebbe tra i Paesi più colpiti dall’applicazione di dazi Usa sui prodotti europei”, calcolando che il calo in valore dell’export italiano potrebbe superare gli 11 miliardi, arrivando fino al -16,8% rispetto ai 66,4 miliardi dell’attuale livello delle nostre esportazioni negli Stati Uniti.

Se si guarda ai dati divisi per settore, si possono individuare quelli più esposti. Al primo posto Macchinari e apparecchiature con 12 miliardi circa di esportazioni, seguono la Farmaceutica con 8 miliardi, e i Mezzi di trasporto, in particolare le navi, con oltre 6 miliardi mentre l’Auto si attesta a 5,8 miliardi. Il settore alimentare è pure importante, con 4 miliardi, poi le Altre industrie manifatturiere con 3,8 e tra i 2 e i 3 miliardi Bevande, Abbigliamento, Pelle, Raffinazione, Chimica, Metallurgia, Elettronica e informatica.

L’amministratrice delegata di Sace, la società pubblica per il sostegno alle esportazioni, Alessandra Ricci, si dice invece ottimista: “Rispetto a Francia e Germania siamo meno vulnerabili a qualsiasi politica di dazi che verrà imposta da Trump”. Questo perché “le imprese medie italiane sono più produttive e il nostro export è meno concentrato in termini di prodotti”.