(di Enrica Perucchietti – lindipendente.online) – Qual è stata la reazione dei media alla liberazione di Assange, ufficializzata oggi dal tribunale di Saipan? Come era già capitato, a livello internazionale, possiamo notare una polarizzazione nelle reazioni di quegli stessi “colleghi”, che in passato avevano coccolato e aiutato il fondatore di WikiLeaks nell’analisi delle fonti e nella pubblicazione delle inchieste, per poi scaricarlo una volta diventato “scomodo”. Come avevamo già analizzato in un precedente articolo, i media mainstream occidentali hanno sofferto a lungo nel dare voce alla causa di Assange, tra chi lo ha dimenticato o relegato in un cantuccio e chi lo ha invece demonizzato, accusandolo di essere “semplicemente” un hacker, se non addirittura una spia al soldo del Cremlino. Anche oggi sembra che a soffrire di più per la liberazione di Assange sia proprio una frangia nutrita (in tutti i sensi) di giornalisti, che si contorce le budella nel vedere l’affetto e la vicinanza del popolo alle sorti dell’attivista australiano, diventato per molti un’icona del giornalismo d’inchiesta

Quasi ci fosse uno scettro da contendersi e non la ricerca indefessa della verità, anche nel nostro Paese diverse testate, che trasudavano fino a qualche mese fa una forma di apparente compiacimento per la persecuzione dell’attivista e giornalista australiano, oggi paiono deluse al pari di cani bastonati e riversano bile sulla carta stampata e sui social. In cima al podio troviamo (ancora una volta) Il Foglio, con gli articoli a firma di Giuliano Ferrara e Luciano Capone. Se quest’ultimo firma un inutile pezzo in cui accusa Amnesty International di aver guidato una campagna incessante a sostegno di Assange e di non aver scritto nulla su Gershkovich e Kara-Murza, il primo, araldo del padrone a stelle e strisce, ci ricorda che «Assange di suo è un po’ spia, tratta notizie anche riservate». Parola di chi da ex informatore a libro paga della CIA (come confermò lui stesso), l’argomento evidentemente lo mastica bene e proietta la sua esperienza sugli altri. Ferrara inserisce Assange nel girone dei giornalisti rei di aver commesso «reati contro la sicurezza che devastano il segreto di Stato in maniera rischiosa e senza filtri diversi dal personale narcisismo». Continua regalando ai lettori una lezione di deontologia, derubricando l’esperienza di WikiLeaks a «paccottiglia», spacciata per giornalismo di denuncia. E conclude invitando a non erigere «un monumento ai ficcanaso che odiano il nostro modo di vivere». Peccato che siano proprio i media mainstream a creare in continuazione inutili eroi di cartapesta che non reggono al tempo e alle intemperie.

A condividere il podio con Il Foglio e le sue accuse ad Amnesty troviamo una raffica scatenata di tweet su X a firma di Marta Ottaviani, che, dopo aver specificato che Assange «non è mai stato un giornalista», accusa gli «anti americani d’accatto» di aver provato a «martirizzare un furbetto che del martire non ha nulla». Già, perché per Ottaviani (con lei «la disinformazione ha le ore contate»), Assange sarebbe un agente disinformatore, una «pedina di Mosca» che ha cercato di «sovvertire la democrazia» e un «utile idiota travestito da martire dell’informazione», immancabilmente al soldo del Cremlino. E non mancano gli attacchi ai colleghi ebeti che lo hanno difeso e al padre di Assange, accusato di essere filorusso. Se Zagrebelsky su La Stampa firma un appassionato ritratto di Assange e spiega che la sua persecuzione «ha voluto colpirne uno per impaurirne cento, perché ciò che egli ha fatto non abbia più a ripetersi», Semprini sulle colonne dello stesso quotidiano ci ricorda che, con Collateral Murder, il fondatore di WikiLeaks ha scoperchiato i crimini di guerra degli USA in Iraq, ma poi è finito per favorire Trump e gli autocrati. Insomma, il ragazzo era partito bene, ma poi è diventato nientemeno che un «cecchino digitale di Vladimir Putin». 

Per Repubblica, che sposa la politica cerchiobottista, Assange rimane «controverso». Eroe? Criminale? Martire della libertà? Giornalista? Agente al soldo altrui? Assange ha attratto negli anni le etichette più varie. Sempre Repubblica, in un’intervista a Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, ci tiene a sottolineare come le rivelazioni di Assange siano state “irresponsabili”, come a sottolineare che la persecuzione giudiziaria se la sia cercata. E qua torna il pluridecennale adagio rinsaldato da Mastrolilli nella colonna a fianco: «Le motivazioni della determinazione con cui Washington aveva perseguito Assange stavano nel fatto che le sue azioni avevano messo a rischio la vita di soldati e altro personale americano». I fatti, però, sconfessano questa diceria. Seppure più equilibrato di altri colleghi, Mastrolilli non può fare a meno di evocare anche le maldicenze per cui Assange sarebbe stato un agente disinformatore al soldo del Cremlino: «[…] aveva pubblicato i file ricevuti da Mosca nel nome della libertà di informazione, protetta negli USA dal Primo emendamento della Costituzione, oppure come agente del Cremlino impegnato a creare il caos negli Stati Uniti?». Tornando a Emmott, questi assicura che negli USA «Assange sarebbe stato giudicato mantenendo tutti i suoi diritti». Peccato che la CIA avesse sviluppato piani per silenziare Assange, compresi agguati a Londra, per catturarlo e portarlo furtivamente negli Stati Uniti attraverso un Paese terzo, e l’omicidio. Lo conferma non un sito di complottisti, ma Wired, che nel 2021 parlava apertamente di «sete di vendetta» degli USA. E tutto ciò suonava poco rassicurante in vista di una sua possibile estradizione.

Anche Flippo Facci su il Giornale  esalta il sistema giudiziario statunitense, per cui gli Stati Uniti «restano una democrazia di riferimento», e ricorda che la liberazione di Assange è potuta avvenire «solo nel suo, nel nostro Occidente». Il sottotraccia continuo in questo genere di articoli è il confronto con la Russia di Putin. Alle tifoserie pro-USA non sfiora il pensiero che la decisione del patteggiamento, che era nell’aria da mesi, sia stata una mossa meramente pragmatica e sia avvenuta nel pieno della campagna elettorale a causa delle critiche condizioni psicofisiche di Assange e del pressing dei Dem (e di Canberra) su Biden, in pieno calo di consensi e in piena emorragia nei sondaggi. Pochi colleghi hanno focalizzato l’attenzione su un punto: il patteggiamento crea un precedente inquietante, un’ombra che si allunga sul giornalismo d’inchiesta. Proprio la moglie di Assange, Stella Morris, ha annunciato che il marito chiederà la grazia agli Stati Uniti sul patteggiamento, perché «altrimenti sarebbe un precedente inquietante per la libertà di espressione». E questo, al di là delle tifoserie, è il punto cruciale e il fardello che tutti noi ereditiamo dalla persecuzione giudiziaria di Assange: la sua liberazione non è dovuta a un compassionevole principio di giustizia. La vessazioni che ha subìto valgono come un monito per tutti coloro che vogliano seguire il suo esempio. D’ora in avanti, un giornalista d’inchiesta che si trovasse tra le mani del materiale scottante sa che rischierebbe di fare la fine di Assange. Perché non è necessario uccidere un uomo per spegnergli la voce.