TRA GIUSTIZIA E COSTITUZIONE – La Carta non è più la “Grande Regola” dell’intera Comunità, ma un impaccio da stravolgere per calcoli di pura convenienza spacciati per volontà del popolo. Che non l’ha mai espressa

(DI ANTONIO D’ANDREA – ilfattoquotidiano.it) – Le riforme per cambiare più o meno a fondo l’assetto istituzionale della nostra Repubblica anche a livello costituzionale sono una tentazione irresistibile per chiunque disponga di una maggioranza parlamentare in grado di approvarle o anche eventualmente di prospettarle agli elettori tramite il referendum eventualmente richiesto da chi non le condivide anche fuori dal Parlamento.

Sembra una suggestione che accompagna non solo leadership acerbe e recenti: prima di Meloni, anche Renzi avrebbe volentieri cambiato il “verso” alla vigente Costituzione e la stessa premiata ditta Grillo-Casaleggio, in particolare tra il 2013 e il 2018, abbia prospettato fantasmagoriche riforme nel nome della democrazia diretta di segno anti-partitocratico e che qualcuna è riuscita pure a realizzarla (riduzione dei parlamentari, elettorato attivo ai diciottenni per il Senato e, in concorso con altre forze politiche, una pletorica minutaglia “addirittura” in favore della tutela degli animali e della sostenibilità ambientale a vantaggio delle future generazioni). Sin dagli anni Ottanta, in effetti, molti protagonisti che hanno calcato con alterna fortuna la scena politica, assumendo responsabilità di governo, non sono sfuggiti al proposito di mettere in agenda “riforme istituzionali” per “riammodernare” il Paese (da Craxi a D’Alema a Berlusconi a Letta) con il supporto degli stessi capi di Stato: dal “picconatore” Cossiga a Scalfaro sino a “tuonante” Napolitano, rieletto suo malgrado – si disse – proprio per favorire “ineludibili riforme” e fronteggiare la crisi del bipolarismo franato per l’avvento del M5S.

Qualche rilevante riforma di segno costituzionale, in verità, è stata in effetti approvata anche con il consenso del corpo elettorale (si pensi oltre che, nell’ottobre 2021, alla riduzione del numero dei parlamentari alla precedente revisione, nel novembre 2001, del Titolo V in tema di potenziamento delle autonomie territoriali e in primis delle Regioni promossa in solitudine dal centro-sinistra) e in qualche altra circostanza nettamente – e fortunatamente – respinta proprio dagli elettori (la riforma berlusconiana nel giugno 2006 e quella renziana nel dicembre 2016). Insomma, è certo che i meccanismi procedurali per la revisione del testo costituzionale sono stati messi in moto e talvolta anche modificati sia pure una tantum per semplificarli attraverso l’istituzione di organismi bicamerali chiamati ad elaborare le proposte di riforma o addirittura con funzioni redigenti nella speranza di concordare tra le forze politiche i mutamenti da introdurre. Il che qualche volta è accaduto persino senza alcuna deroga procedurale e con largo consenso parlamentare impeditivo del referendum (si pensi alla riforma del bilancio promossa dal Governo Monti e introdotta nell’aprile 2012) mentre altre volte, nonostante le semplificazioni procedurali, non si è raggiunto lo scopo prefissato per le ragioni più varie (si pensi, dopo l’affermazione dell’Ulivo con Prodi leader, al fallimento della Commissione Bicamerale D’Alema come pure alla sostanziale inutilità del lavoro svolto dal “plurale” Comitato di studio insediatosi durante il Governo Letta e di altri organismi del genere che hanno visto la luce senza poi riuscire a trovarla). Quello che è certo è che non esiste alcun tabù per cimentarsi dall’alto, vale a dire della posizione istituzionale ricoperta, nei cambiamenti costituzionali e che, ahimè, questo smanioso attivismo ha sicuramente indebolito la carica ideale che serve ad assicurare la vitalità della nostra Legge Fondamentale.

Ciò che tuttavia rende peculiare i propositi riformatori direttamente rivendicati dalla Presidente Meloni è la ferma volontà di comporre un non banale puzzle così da incastrare differenti esigenze, o presunte tali, identitarie ed elettorali dei partiti dell’attuale maggioranza di centro-destra. Lo scopo, solo politico e per nulla istituzionale, è dimostrare una capacità di tenuta della maggioranza guidata autorevolmente – senza se e senza ma – da Giorgia proprio sul terreno scivoloso delle modifiche ordinamentali a cui le singole componenti, in realtà, connettono un peso assai differente (prioritario per FdI è portare a casa una specie di presidenzialismo italico individuato come premierato; per FI una riforma della magistratura che metta al loro “posto” taluni segmenti dell’autorità giudiziaria; per la Lega consentire alle Regioni del nord, dove ancora registra un peso specifico che altrimenti verrebbe eroso del tutto, di giovarsi dell’“autonomia differenziata”).

Del resto, sembra proprio che l’elettorato che esercita, nonostante la crescente disaffezione al voto politico, i propri diritti apprezzi questa capacità coalizionale che rende da sempre il centro-destra in grado di fare “sintesi” rispetto alle altre forze politiche. E dunque si procede così felicemente anche a costo di paradossali e gravi sbandamenti tecnici. È evidente che il premierato proposto non si risolve tanto nell’elezione diretta di alcuno, quanto nell’individuazione, in virtù di un premio di maggioranza da costruire ex post o forse in parallelo si vedrà, attraverso acconci meccanismi elettorali che verranno in seguito approvati, di un blocco di maggioranza che non a caso dovrà conferire la fiducia al premier e al suo governo e sarà sempre in grado di sfiduciarlo e persino, a certe condizioni, di cambiarlo scegliendo altro premier al suo interno senza che il capo dello Stato proferisca parola. Come pure a costo di enfatizzazioni del senso delle deliberazioni parlamentari spacciate per quello che non sono ancora nella sostanza. È evidente che la legge Calderoli, a prescindere dal merito, non è nient’altro che una legge procedurale di rango ordinario, in attuazione di principio costituzionale vigente e risalente, la quale si sarebbe potuto evitare persino di approvare, perché forme di autonomia differenziata potranno dirsi realizzate in linea con la normativa costituzionale solo quando vi sarà un’intesa effettiva siglata tra lo Stato e la Regione richiedente trasfusa in una legge ad hoc. Si vedrà e sarebbe bene tenere distinte le critiche al premierato che postula la revisione costituzionale della forma di governo e quelle alla realizzazione, certo con opzioni procedurali differenti rispetto a quelle licenziate dalle Camere, dell’autonomia differenziata in attuazione di un principio costituzionale vigente. E vedremo anche in che cosa si sostanzierà la “riforma della Giustizia” quando si passerà dalle parole roboanti e accidiose del Guardasigilli trasfuse nel progetto governativo alle determinazioni per realizzare forme di autogoverno separato tra magistrati inquirenti e giudicanti. Come pure per riscrivere il procedimento disciplinare per i magistrati dinanzi alla costituenda Alta Corte, nuovo giudice speciale che viceversa sembra piacere ai governanti e ai governativi di complemento. Quello che è sicuro, in questo caso, è che la “vendetta” nel nome del politico più perseguitato al mondo – così sostiene un familiare di Berlusconi, per quattro volte a capo del governo italiano tra il 1994 e il 2011 – dalla nostra magistratura, stravolgerebbe l’attuale quadro costituzionale.

L’impressione è che si vogliano fare le riforme per un calcolo di mera convenienza politica, spacciata come realizzazione di un vero e proprio mandato del proprio elettorato. Molto si potrebbe obiettare rispetto a questo approccio che denota poca dimestichezza con l’idea di fondo su cui si basano le più evolute democrazie occidentali: quella della Costituzione come “grande regola” in cui si riconosce la Comunità nel suo insieme a partire dalle forze politiche che detengono legittimamente, ma solo pro tempore, la leva del potere decisionale. Un potere contingente e limitato proprio dalle regole costituzionali che viceversa si vorrebbero cambiare per realizzare un programma costituzionale della sola maggioranza. Mi pare sia la prima volta che una maggioranza politica ritenga di aver avuto esplicitamente il mandato di cambiare parti cruciali della Costituzione e che si impegni a farlo per ottemperare a una promessa vincolante con una porzione di elettorato che, come è noto, in termini assoluti è ben lungi dall’essere maggioranza nel Paese. Le maggioranze politiche e le leadership, anche quando sono effimere e comunque destinate a non durare, possono essere pericolose e deleterie. Ma prima o poi sono destinate a fare i conti con il buon senso popolare. Auguriamoci che accada prima possibile, tendendo il punto senza sbandamenti.