I premier a Roma litigano sul gruppo al Parlamento europeo e rompono sulle nomine

Meloni e Orban a palazzo Chigi

(di Tommaso Ciriaco – repubblica.it) – Amici, ma di quelli che dopo una lite non riescono più a ritrovarsi davvero. Vicini, ma non troppo: non riescono neanche a costruire un gruppo assieme. Però franchi, come due sodali che qualche anno fa intonavano “Avanti ragazzi di Buda” con la mano destra sul cuore.

Il nodo dell’Ucraina

«Sull’Ucraina non intendo mostrare cedimenti e non penso che l’Europa possa mostrarsi debole», dice Giorgia Meloni a Viktor Orbán, occhi negli occhi. C’è freddezza, distanza. Hanno lasciato i ministri fuori dal salone di Palazzo Chigi, per parlarsi faccia a faccia. «È un errore sostenere Kiev in questo modo – replica indispettito l’inventore della democrazia illiberale ungherese – su questo non siamo d’accordo». L’italiana prova senza convinzione a sottoporgli una possibile soluzione, «se ti impegni con un patto scritto a sostenere Kiev, possiamo stare nello stesso gruppo, lo sai». L’ungherese rifiuta, un po’ sdegnato.

E così, i due prendono atto dell’impossibilità di un matrimonio tra Fidesz e i Conservatori europei («non possiamo fare parte di una famiglia politica dove c’è un partito rumeno che è anti-ungherese», ammette Orban, drastico). I magiari resteranno fuori dalla porta di Ecr, infastiditi dalla gestione degli ingressi da parte di Meloni. E la premier rinuncerà a undici eurodeputati ungheresi, spiegandone brutalmente la ragione al diretto interessato: «Se aderite voi, se ne vanno almeno altre sei delegazioni, ce l’hanno già fatto sapere». Soprattutto perché in queste ore anche il Pis polacco rischia di abbandonare i conservatori, sottraendo in un colpo solo venti seggi a Ecr.

Matrimonio conservatore impossibile

L’incontro, insomma, non va bene. Né poteva essere altrimenti, perché gli obiettivi sono diversi (almeno per il momento). Bisogna però chiarire un punto, prima di proseguire nel racconto. Meloni e Orbán hanno in comune un alto tasso di pragmatismo, parente stretto del cinismo politico. Dove non c’è accordo, si prende atto e si individua un nuovo terreno di confronto. Davanti alla stampa, allora, la premier concede all’amico nazionalista un riconoscimento non scontato, soprattutto se si considerano le ripetute forzature dello Stato di diritto che affliggono gli ungheresi: «Le relazioni tra Roma e Budapest sono eccellenti». E Orban ricambia, preparandosi al semestre di presidenza ungherese che si apre il primo luglio: «L’Italia è uno dei nostri alleati più importanti su migranti e competitività».

Ecco, i due ammettono i problemi e vanno oltre. Meloni sostiene che sull’Ucraina «le nostre posizioni non sono sempre coincidenti», ma assicura di apprezzare «la posizione ungherese in ambito europeo e Nato che consente agli alleati di assumere decisioni importanti anche quando Budapest non è d’accordo». Ma è quando si scende nel merito delle politiche di ultradestra che i due sovranismi ritrovano una buona sintonia: «Condivido le priorità del semestre ungherese – dice Meloni – a partire dalla sfida demografica». E Orbán, con parole sprezzanti verso chi emigra: «Voi siete più vicini all’Africa, ma i migranti arrivano anche da noi. Noi appoggeremo tutto ciò che la premier ha proposto», a partire dal Piano Mattei. Entrambi, poi, si opporranno al Green deal.

Disaccordo sulle nomine

E sempre a proposito di pragmatismo: tutti e due giocano in queste ore su diversi tavoli, in modo spregiudicato. Orban ufficialmente attacca von der Leyen e l’accordo che la sostiene: «Non possiamo appoggiare questo patto partitico sui top jobs». In realtà, ragiona con Meloni anche della possibilità di fornire sottobanco i voti necessari a Ursula, in cambio di un portafoglio di peso per l’Ungheria. È una strategia che ricorda quella della premier. La quale, in queste ore, è letteralmente lacerata da un dubbio: conviene provare a boicottare von der Leyen? E per andare dove? Ci ragiona con Orbán, a lungo. Il vantaggio sarebbe quello di attendere il voto francese. Lo svantaggio, lo stesso: attendere il voto francese. Dipende insomma dall’esito delle legislative in Francia, che potrebbero proiettare Marine Le Pen al governo, ma anche bloccarne l’ascesa. Per questo, almeno per adesso, Meloni cerca di trattare al massimo sul portafoglio. Il nome è quello di Raffaele Fitto, soprattutto in caso di bis di von der Leyen. Altrimenti si aprono altri schemi e nomi alternativi. Non quello di Giancarlo Giorgetti, però: non toccherà quella casella di governo.