“C’è un disprezzo diffuso e le riforme volute dal governo accentuano la crisi del nostro sistema”. Il professor Gaetano Azzariti boccia “la madre di tutte le riforme”

(di Simone Alliva – lespresso.it) – La «madre di tutte le riforme», per usare la definizione della presidente del Consiglio, «è un suicidio». Gaetano Azzariti, professore di Diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, lo vede chiaramente e con scioltezza illumina il precipizio fortemente voluto da Giorgia Meloni: «C’è un sentimento molto diffuso di disprezzo e queste riforme accentuano la crisi di funzionamento del nostro sistema».

Professore, inizierei dal nome: «Premierato all’italiana»
«È un segno dell’improvvisazione di questa riforma. Quando non si riescono a definire i concetti si inventa un neologismo. Ogni tanto si mette un neo: neo-premierato, neo-costituzionalismo, neo-parlamentarismo. Altre volte ci si inventa paralleli che sono storicamente e tecnicamente non fondati. Premier, ad esempio; ci si riferisce al sistema inglese che non ha nulla a che fare con questa riforma. Penso che dovrebbe essere definita più correttamente “elezione del capo”. Che questo sia lo spirito profondo della riforma lo dimostra lo stesso governo quando afferma che tutto si può discutere tranne l’elezione diretta del capo del governo. Ciò spiega anche perché la destra si presenta alle elezioni proponendo prima l’elezione diretta del presidente della Repubblica, poi ritiene del tutto equivalente quello del Consiglio. Rivelano ciò che unicamente conta in questa riforma: l’elezione del capo. Se vogliamo nobilitare questa forma chiamiamola: democrazia identitaria».

Cosa intende?
«Carl Schmitt sosteneva che la massima espressione della democrazia identitaria è l’acclamazione, cioè quando il popolo dice sì o no. Il popolo un giorno sarà chiamato per acclamare il capo. Se va bene ci rivediamo tra cinque anni, se va male chissà. Il premierato segnerà la fine della rappresentanza politica per come l’abbiamo sin qui conosciuta nei sistemi democratici pluralisti e conflittuali, quei sistemi che si reggono sulla diversità di soggetti politici (pluralismo) e alla ricerca del loro difficile compromesso (del conflitto) in Parlamento. Le democrazie parlamentari svolgono questo ruolo: è lì che si dovrebbe consumare il confronto tra maggioranze e opposizioni. Qui si vuole, invece, l’elezione identitaria di uno».

Curioso che lei abbia usato questo termine. La presidente Meloni con i giornalisti spesso parla di «capo del governo». Formula cancellata dall’ufficialità il 25 aprile 1945.
«Si gioca sulle parole. Richiama a un capo che a tutti noi non piace ricordare ma che suscita nostalgia in alcuni settori di questo governo».

Tra Montecitorio e Palazzo Madama, corre questa battuta: «Il premierato, di fatto, esiste». Decreti legge discussi in una sola Camera e ratificati dall’altra, maxiemendamenti, voti di fiducia. Il Parlamento oggi non c’è più.
«Questo è il difetto del sistema istituzionale italiano. E quello che impressiona è che avendo consapevolezza di questo, anziché reagire e andare nella giusta direzione, cioè ridefinire equilibrio tra governo e Parlamento, a favore del Parlamento, si insiste sulla concentrazione dei poteri nelle mani di un organo solo, il che accentuerà uno squilibrio che già c’è. Il problema costituzionale italiano oggi è ridurre il potere del governo nei rapporti con il Parlamento, non aumentarlo. Trovare degli strumenti per limitare la decretazione di urgenza e rafforzare le iniziative parlamentari: questa è la via da seguire. Le ricordo che i classici da Platone ad Aristotele sostenevano che la cosa più importante non è la scelta di forma di governo o di Stato ma gli equilibri che si creano, altrimenti c’è il rischio di degenerazione. Il problema più grave non è l’elezione diretta, ma l’assenza di contrappesi».

Il presidente della Repubblica è garante della Costituzione. E mai, dentro questo tempo polarizzato si è dimostrato fondamentale. Questa riforma che impatto avrà sul suo ruolo?
«Il diritto costituzionale spiega che al capo dello Stato spetta un potere di intermediazione e che i suoi poteri devono essere esercitati attraverso principi di sollecitazione, persuasione, autorevolezza. È evidente che se gli lasci formalmente un potere e sottrai la possibilità di intermediazione lo uccidi come figura costituzionale, gli fai fare il notaio. Basta pensare che mai un presidente della Repubblica potrebbe rifiutare dopo le elezioni di dare l’incarico a un non eletto: sarebbe un colpo di Stato. Così anche per l’altro potere più importante, quello di scioglimento delle Camere che diventa un potere del presidente del Consiglio. Tutto questo è un rischio per la stabilità del sistema: da tempo infatti il presidente della Repubblica, e non parlo solo di Sergio Mattarella, svolge funzioni di riequilibrio che andrebbero perdute».

La presidente Meloni ha comunque ragione quando dice che il problema principale della nostra vita politica è l’instabilità dei governi: 68 in 78 anni di Repubblica, dal 1946 a oggi con una media di appena un anno e quattro mesi.  
«Cosa vuol dire stabilità del governo? È un termine polisemico, può voler dire tante cose. Se diciamo che la stabilità del governo è legata all’autorevolezza del governo e alla sua capacità di determinare politiche sociali importanti sono d’accordo. Un problema drammatico, ma che riguarda la crisi della democrazia, alla distanza sempre più radicale tra governanti e governati, pensiamo all’assenteismo al voto. Ed è un tema da affrontare con una riflessione più seria sull’articolo 49 della Costituzione che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. È in questo caso che la stabilità si collega alla capacità di esprimere un indirizzo politico. Ma non è questo il punto che si vuole affrontare, si pensa solo alla durata. E allora dobbiamo anche dire che prima della modifica del sistema maggioritario è vero che i governi cambiavano molto di frequente ma i governi di coalizione avevano comunque una forte stabilità d’indirizzo politico, tanto che c’era un partito di maggioranza relativa come la Democrazia Cristiana che stava sempre al governo, mentre cambiavano i suoi alleati e uno alla opposizione. Per quanto riguarda le ragioni della breve durata, vorrei far notare che, a parte quelli di Romano Prodi che fanno eccezione, tutti i governi sono caduti per crisi extraparlamentare, cioè per la spaccatura all’interno della coalizioni. È dunque qui il problema. Sa perché in Germania sono più durevoli? Per due ragioni: la prima, la dico con ironia, sono i tedeschi. La seconda è che hanno una cultura della coalizione di governo che noi non abbiamo».

E quindi?
«E quindi bisogna ragionare sulla fragilità degli accordi di coalizione. Il giorno in cui avremo una cultura di coalizione, i governi dureranno di più».

Le pongo un’altra obiezione: il premierato elettivo è già il modello che regge i Comuni e le Regioni italiane. L’elezione diretta in Italia esiste per sindaci e presidenti di Regione. Ritorna quello slogan noto che ha sedotto in un tempo storico anche la sinistra: «Sindaco d’Italia».
«Quando non si hanno le idee chiare si utilizzano slogan. Ma chi può pensare che fare il sindaco di un Comune o anche il presidente di Regione equivalga a fare il presidente del Consiglio dei ministri? La responsabilità internazionale che hanno i capi di Stato e di governo quando vanno al G7 e decidono su guerra e pace, non sono equiparabili. Gli “amministratori locali”, vengono chiamati così non a caso, vengono rieletti perché hanno amministrato in una dimensione politica istituzionale che non è equiparabile a quella nazionale. Aggiungo che tanto più potere si vuol dare al governo, al presidente del Consiglio, tanto più i controlli parlamentari sono necessari. Soltanto il potere arresta il potere, diceva Montesquieu. La democrazia è complessa si regge su pesi e contrappesi. Stiamo terribilmente trascurando questo aspetto».

La riforma è di iniziativa governativa, non parlamentare: è la prima volta nella storia repubblicana. Quando il Popolo della Libertà presentò la sua, di riforma costituzionale, ne discusse a Palazzo Chigi – non senza scandalo – ma ebbe cura di far presentare poi il ddl in Parlamento. Che ne pensa?
«Il disprezzo per il Parlamento è palese. Pensi alle vicende degli ultimi giorni. Da un lato la ripetizione di una votazione, quella sull’autonomia differenziata, hanno aspettato due giorni, poi l’hanno rifatta con il massimo disprezzo per i regolamenti parlamentari e per le regole basilari della democrazia parlamentare. E poi le risse. C’è un sentimento molto diffuso di disprezzo e queste riforme accentuano la crisi di funzionamento del nostro sistema. Posso dirle cosa mi colpisce di più?».

Avanti, lo dica.
«I nostri parlamentari si stanno suicidando. Se potessi farei un appello ai nostri parlamentari per dirgli: cari eletti già contate poco, con questa riforma non conterete nulla. Questa riforma produce l’effetto di legare la maggioranza parlamentare all’elezione di un presidente del Consiglio dalla cui volontà dipende la vita della legislatura. Il capo ha la parola finale sul Parlamento. La cosa incredibile è che si parla dell’elezione del capo, ma non si scrive in Costituzione neanche come debba avvenire, rinviando a una legge elettorale definita chissà come. L’unica indicazione vincolante è che questa dovrà comunque garantire una maggioranza parlamentare consona al premier. Il che vuol dire uccidere il Parlamento».

Professore, le avrei chiesto se vede dei pericoli all’orizzonte considerando questo binomio di riforme: premierato e autonomia, però mi sembra chiaro.
«Parliamo di fatti, non di opinioni. Anche chi apprezza queste riforme non potrà negare una cosa: se in questa legislatura dovessero andare in porto le riforme del premierato, dell’autonomia e della separazione delle carriere per i magistrati, credo che dovremmo prendere atto che non avremo più la Costituzione del 1948. L’abbiamo svuotata di senso. È qualcosa che non potranno negare neanche i fautori. Siamo in un punto di svolta radicale rispetto a quello che è stata la Costituzione».

La Costituzione cos’è per lei?
«I principi che fondano la comunità di un popolo. Machiavelli sostiene che non è difficile avere il potere, per conquistare un regno o una repubblica basta avere la forza o anche solo avvantaggiandosi della forza di altri. Il problema è riuscire poi a conservarlo in base a regole di convivenza. Le regole al tempo di Machiavelli potevano essere puramente politiche noi abbiamo scoperto, dopo le grandi rivoluzioni borghesi, che le ragioni della convivenza sono legate a principi fondamentali che ci diamo in tempi di sobrietà perché possano valere in tempi di ubriacatura. Questi sono tempi di ubriacatura. Dovremmo cercare di attuare una Costituzione che non è la più bella del mondo ma la più inattuata del mondo».