Otto euro al giorno per 18 ore di lavoro, passaporti confiscati, sfruttamento: quattro membri della famiglia Hinduja condannati a quattro anni ciascuno per tratta di esseri umani nella loro villa di Ginevra

(di Irene Soave – corriere.it) – Spiace per gli incolpevoli animali di casa, che la letteratura e la cronaca di ogni epoca mettono a confronto con il personale domestico per mostrare il duro cuore dei padroni. Ma succede almeno dai tempi di Giuseppe Parini (1729-1799): nel Giorno un cameriere, morso dalla cagnolina dei signori («la vergine cuccia»), si difende con un calcio e viene licenziato. Spendevano più per il mangime del loro cane che per lo stipendio di uno dei loro domestici, nella loro villa di Ginevra, Prakhash e Kamal Hinduja, origini indiane e passaporto britannico, membri della famiglia più ricca del Regno Unito (il fratello di Prakhash, Gopichandra, è l’uomo più ricco del Paese). E il giudice svizzero ha condannato gli Hinduja, il figlio Ajay e la moglie di lui Amrata a pene da quattro a quattro anni e mezzo di carcere per sfruttamento della manodopera e lavoro illegale, mentre è caduta l’accusa più grave mossa nei loro confronti, traffico di esseri umani. 

Il clan Hinduja è a capo di una multinazionale indiana che possiede solo in Regno Unito beni per 50 miliardi di euro, e ben di più nel resto del mondo: loro è per esempio la catena internazionale di alberghi Raffles. Eppure l’accusa è di avere ridotto i domestici letteralmente in schiavitù.  

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A fare causa, tre lavoratori indiani, portati a Ginevra per lavorare nella villa degli Hinduja – nell’elegante quartiere di Cologny, in riva al Lago Lemano – e definiti «beneficiati dalla famiglia Hinduja, che ha offerto loro buone condizioni di vita» dalla difesa. Analfabeti, ricevevano 7-8 euro al giorno circa per giornate lavorative di 15 o 18 ore, un decimo del minimo previsto dalla legge svizzera; non avevano mai un giorno libero i loro passaporti erano confiscati; era loro vietato di lasciare la villa svizzera dove lavoravano, anche se in tribunale la difesa dei loro datori di lavoro ha negato che questo fosse vero; i loro magrissimi stipendi, inoltre, venivano versati loro su conti indiani e ogni tre o sei mesi, per risparmiare, lasciandoli senza un soldo nella costosa Ginevra dove erano costretti a lavorare. Dormivano in un seminterrato. 

Gli Hinduja respingono le accuse, annunciano ricorso e fanno valere il vitto e alloggio che garantivano ai domestici; protestano che non erano loro in persona a scegliere il personale di casa; si dicono, tramite i loro avvocati, «discriminati» dal sistema giudiziario svizzero. Ma il quadro è talmente grave che pur avendo i miliardari e i domestici patteggiato un risarcimento in sede civile, i magistrati hanno anche sporto una denuncia penale per traffico di esseri umani. Quest’accusa è caduta. Restano le condizioni in cui lavoravano i domestici. «Ci erano riconoscenti», hanno fatto sapere gli Hinduja tramite gli avvocati. Una dei quali ha anche chiesto al giudice, intendendo che le accuse fossero esagerate: «Stare a guardare un film coi bambini di casa, secondo la corte, è lavoro?». 

I due genitori Prakash e Kamal Hinduja non sono andati in tribunale: entrambi ultrasettantenni, lui in ospedale a Monaco col resto della famiglia al suo capezzale. Il loro figlio Ajay e la moglie Amrata hanno presenziato a tutte le udienze, non a quella finale di venerdì: l’accusa ha chiesto per loro anche detenzione immediata, che il giudice però non ha disposto. Agli atti del processo c’è anche la solita frase: «Per noi», ha lasciato scritto uno degli Hinduja, «erano come membri della famiglia».