UN NON-LUOGO PER MOSTRARCI AL G7 – Nel francobollo celebrativo non figura il comune in cui si è svolto, solo “un nome che non trova corrispondenza in alcun Ente della Repubblica italiana”

(DI TOMASO MONTANARI – ilfattoquotidiano.it) – Borgo Egnazia. Se, tra fascismi risorti e guerra atomica imminente, non ci fosse da disperare, ci sarebbe da ridere. Dopo tutta la retorica sulla patria, la nazione, l’identità, la ‘cultura nostra’, l’autarchia e le radici, Giorgia Meloni convoca i sedicenti Grandi della Terra in un non-luogo, simbolo della mercificazione e della disneyficazione dell’Italia. Non in una città, in un paese, in qualcosa di vivo e di vero, ma in un santuario del turismo extralusso sorto dal nulla: disegnato, una manciata di anni fa, da uno scenografo. Una quinta di cartone, una finzione, un set: come la Venezia di Las Vegas. Non l’Italia, ma un prodotto commerciale per ricchi, ‘liberamente ispirato’ all’Italia: la quintessenza dell’Italia ‘open to meraviglia’. Desolato, il sindaco di Fasano ha scritto a Mattarella denunciando che sul francobollo commemorativo dell’evento non ci sia nessun cenno al comune in cui si svolge, ma solo “un nome che non trova corrispondenza in alcun Ente di cui si compone la Repubblica italiana”. Già, perché dire Borgo Egnazia è come dire Gardaland, o meglio come dire Four Seasons: è un marchio commerciale quello che entra nella toponomastica della Repubblica. Una colossale pubblicità di Stato all’impresa privata a cui Meloni è tanto affezionata: e dov’è “l’interesse esclusivo” della famosa Nazione, in questa catena di affetti privati che evidentemente nemmeno la disciplina e l’onore possono spezzare?

Ma c’è qualcosa di peggio, di più culturalmente marcio. Due anni fa, uno splendido saggio a più mani (Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, a cura di F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi, Donzelli editore) ha chiarito cosa davvero implichi il dilagare della retorica del ‘borgo’: “Viene messa in scena una rappresentazione del ‘borgo-merce’ impastata di archeologizzazione e medievalizzazione, associata alle rievocazioni storiche in costume, al pittoresco e al branding della località ‘tipiche’. … La pervasività borgo-centrica, la borgomania, separa invece di unire, spezza il rapporto vitale tra l’insediamento e il suo intorno, persegue la polarizzazione contro il policentrismo, congela la lunga e contrastata storia dell’insediamento umano nel nostro paese, in favore di una fissità senza tempo che è il contrario della storia e annulla la geografia dei luoghi, come se i borghi potessero esistere senza le relazioni con le aree che li circondano. Dimenticando che lì si continua ad abitare e sempre più spesso si costruiscono percorsi di rivitalizzazione e rigenerazione. Un borgo-merce, appunto, che premia la globalizzazione del tipico: promesso a tutti, ma che deriva il suo valore solo se fruito dai pochi”. Borgo Egnazia è l’ultimo stadio di questo processo: perché non è un paese ‘borghificato’, ma è appunto una totale finzione. Un resort costruito in forma di borgo: il vertice dell’alienazione. Per rimanere al fornitore di vini del vertice, insomma, un non-luogo che sta all’Italia reale (‘autentica’, direbbero loro) come Porta a Porta sta alla libera informazione.

Ma non c’è molto da stupirsi se i cantori della tradizione e dell’identità scelgono poi di rifugiarsi in una finzione commerciale: la loro idea di identità, infatti, non ha nulla a che fare con la storia e con la geografia del paese reale. Se le conoscessero, rimarrebbero atterriti dalla varietà estrema del Paese che dicono di amare: “Quali diverse dosature razziali avranno differenziato il genio di ogni città?”, si chiedeva Arsenio Frugoni nel 1956. No, la loro è una identità di plastica, buona per manganellare neri e stranieri, e lontana le mille miglia da ogni idea di cultura, conoscenza, amore. Non per caso sostengono tranquillamente l’autonomia differenziata, scaturita dalla scellerata riforma del titolo V della Costituzione perpetrata dal Centro-sinistra e poi fatta crescere dallo specialista in ‘porcate’ Roberto Calderoli: non è solo uno scambio con la Lega, no. È che per quelli che si fanno portare la voce da uno come il Signorelli junior, l’identità ha a che fare con il sangue, non con la storia, l’arte, le città. “Il razzismo nostro è quello del sangue”, scriveva il Giorgio Almirante, santificato da Giorgia. E con lo stesso disprezzo della storia, il Manifesto della razza proclamava: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia”. ‘Assimilazione’: non per caso era proprio questa la parola scelta dal ministro Valditara in quel suo tweet in italiano zoppicante sulle quote per lui accettabili di ragazzi stranieri nelle scuole.

Perché tutta questa nebbia tossica possa resistere, il contatto con la realtà è da evitare in ogni modo: meglio chiudersi in un’Italia finta, fatta su misura. Un’Italia solo per stranieri: ma ricchi, bianchi, potenti.