(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Bocchino fa un’analisi sull’astensionismo, Cacciari lo insulta: “Come fai a dire queste puttanate?”, poi abbandona lo studio. Accordi&Disaccordi

L’informazione unica riesce ottusamente a festeggiare il tracollo elettorale dei Cinque Stelle mentre frigna sull’astensionismo che nelle ultime elezioni europee ha superato la soglia, non soltanto psicologica, del 50 per cento. Eppure, non occorre chissà quale scienziato per comprendere come i due fenomeni siano collegati. Infatti, quando Italo Bocchino sostiene che nelle democrazie mature tanti non vanno a votare perché comunque fiduciosi nella stabilità del sistema, pensa sicuramente agli Stati Uniti. Ma se poi Cacciari si arrabbia (eccedendo come gli capita spesso) ha dalla sua motivate ragioni ben sapendo come l’astensionismo italiano attinga direttamente da un serbatoio sempre più profondo nel quale allignano rabbia e protesta.
Nel 2018, davanti al boom clamoroso del M5S si sentenziò che il movimento grillino era riuscito a drenare una vasta quota del non voto incanalandolo nelle istituzioni repubblicane. Quando i due governi Conte portarono a compimento le riforme che da quella spinta fuori dagli schemi avevano origine – dal Reddito di cittadinanza alla Spazzacorrotti, al taglio anti-casta dei parlamentari e dei vitalizi – si può dire che la saldatura tra consenso e cambiamento si fosse in qualche modo realizzata. Ora però che la spinta propulsiva di “quel” Movimento sembra essersi interrotta (se non addirittura esaurita) ecco che circa il 33 per cento dei voti dei 5 Stelle se ne sono andati (o sono ritornati) nell’astensione. Se per restarci o se per cercare nuovi approdi dipende da ciò che offrirà il mercato. Trattandosi di alcuni milioni di cittadini delusi è possibile ritrovarli laddove si materializzi una qualche offerta antisistema. Come accaduto, per esempio, in Germania con la destra ultraradicale di Afd, diventata la seconda forza nel Paese assorbendo in sé i peggiori rigurgiti neonazi.
Rispetto a questo pericolo, qui da noi, Giorgia Meloni tenta di apparire come una sorta di medicina omeopatica che, per capirci, tollera una minima dose di fascismo per tenerlo sotto controllo. Del tipo: adesso ci sono io, ma domani potrebbero esserci quegli altri che sono molto peggio di me. Un equilibro destinato a durare fino a quando qualcuno non comincerà ad attingere direttamente dalla rabbia di quel gigantesco serbatoio di elettorato inerte. Il primo che ci viene in mente è il generale Roberto Vannacci, che ha già messo in cascina più di mezzo milione di voti, e tutti ricevuti a titolo personale. Che cotanta popolarità egli voglia limitarsi a spenderla sul tavolo di Strasburgo alla lunga non appare convincente (considerato anche il notevole ego generalizio). Quanto a una sua scalata ai vertici della Lega non sembra nel novero delle cose possibili considerata l’antipatia, e non solo politica, di cui egli gode tra gli azionisti di riferimento del Carroccio che sono i governatori del Nord: da Zaia a Fontana e Fedriga.
Resta in campo l’ipotesi di un movimento autonomo Vannacci ispirato alla dottrina, diciamo così, oscurantista dell’uomo in mimetica. Sarebbe davvero gustoso se i giornaloni specializzati nel vituperare Giuseppe Conte si ritrovassero a fare i conti con il rude ammiratore dello “statista” Mussolini.