(Michel Guerrin – Le Monde) – Il ministro italiano della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ha postato un pungente tweet lo scorso 17 maggio: «Scusate, non sono a Cannes. Lo dico con grande rispetto per i lavoratori del cinema, ma sono in fabbrica tra gli operai per parlare del valore di una cultura accessibile a tutti».

Ha allegato una foto che lo mostra in un magazzino tra i dipendenti. Questa scelta di programma mira a ricordare un classico dell’estrema destra, attualizzato dal capo del governo italiano, Giorgia Meloni: promuovere una cultura del popolo contro quella delle élite. Il Festival di Cannes è il capro espiatorio ideale, dove il palazzo è un bunker, il tappeto è rosso, le star viaggiano in limousine, dove la colazione e gli hotel sono troppo cari.

Al giorno d’oggi, non è più necessario essere di estrema destra o italiani per contrapporre il popolo alle élite usando la cultura come sacco da boxe. Tutti i partiti in Francia stanno flirtando con questo concetto.

Ma l’Italia si spinge oltre, e poi questo Paese ci è vicino e alcuni lo vedono come un laboratorio.

Dopo diciotto mesi di governo post-fascista, l’economia della Penisola è fiorente, il turismo è ripreso con forza, il Paese è rimasto nell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico e in Europa sostiene l’Ucraina, gli oppositori non sono in carcere.

I cambiamenti sono altrove: valori, identità, cultura.

Giorgia Meloni invoca «una nuova immaginazione italiana». Un’altra narrazione. Nel novembre 2023, la fan di Tolkien ha fatto finanziare dallo Stato (250.000 euro) una mostra a Roma dedicata all’autore de Il Signore degli Anelli, vedendo in essa il simbolo della lotta delle radici cristiane contro il male.

Anche il partito al governo, Fratelli d’Italia, non esita a riscrivere la storia. Gennaro Sangiuliano, che si è fatto le ossa tra i giovani del Movimento Sociale Italiano neofascista, dice che “Dante è il fondatore del pensiero di destra”. Il suo leader non condanna il periodo fascista nel suo insieme, poiché è lì affonda le sue radici.

Inoltre, in aprile la Rai ha censurato un testo dello scrittore Antonio Scurati, autore di una fortunata saga su Mussolini (Edizioni Les Arènes, tra il 2020 e il 2023), in cui ricordava i crimini del Duce.

Il clan Meloni è ancorato al pensiero di Antonio Gramsci, per il quale la battaglia di opinione è soprattutto culturale. Già, minando alcuni valori del nemico (aborto, diritti LGBT+, wokismo, ecc.) e deridendo o stigmatizzando tutto ciò che assomiglia a un intellettuale di sinistra. Funziona, quest’ultimo commette l’errore di cadere nella trappola dell’insulto.

Il filologo Luciano Canfora ha descritto Giorgia Meloni come una “neo-nazista nell’animo”. Brian Molko, cantante del gruppo Placebo, in concerto vicino a Torino, l’ha destritta “sporca merda fascista, razzista”.

Lo scrittore Roberto Saviano ha etichettato lei e il suo vice primo ministro, Matteo Salvini, come “bastardi”. Il clan dominante porta avanti dei processi, descritti dagli intellettuali come un modo per imbavagliarli. Non è sbagliato, ma controproducente.

«Spiegare come Meloni governa malissimo, soprattutto in ambito culturale, è più efficace che insultarla e conferirle lo status di vittima», pensa Alberto Mattioli, che ha appena pubblicato “Destra Maldestra”, un pamphlet sulla politica culturale del presidente del Consiglio e su questa “scomoda destra”. (Chiarelettere).

Perché di cosa ci siamo arrabbiati per diciotto mesi? Perché Giorgia Meloni sostituisce i capi di teatri, musei o festival con amici politici e sostituisce gli stranieri con italiani. Ma clientelismo culturale e nazionalismo sono sport praticati da secoli anche altrove oltre all’Italia.

No, il problema, ben individuato da Alberto Mattioli, è che il capo del governo e il suo entourage non hanno alcun progetto o visione sulla cultura, cercano solo di occupare spazi e piazzare pedine.

E, poiché il loro bacino è scarso, gli eletti fanno impallidire rispetto a quelli sostituiti.

La televisione, bersaglio del potere, la direzione della celeberrima Biennale di Venezia (cinema, arte o architettura) è stata affidata all’incontrollabile Pietrangelo Buttafuoco, molto quotato a destra con amicizie a sinistra, e convertito all’Islam.

Il profilo era rassicurante, poiché il mondo dell’arte temeva peggio. Ma nominato a fare cosa? Nessuno lo sa. Non ci poniamo nemmeno più la domanda. Quando viene nominato il nuovo direttore della Scala di Milano, il ministro si accontenta di esprimere la sua gioia nel vedere emergere un italiano dopo tre stranieri.

Uno spettacolo pietoso lo ha dato per mesi anche Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, più noto per i suoi discorsi sessisti e osceni, nonché per le sue frodi fiscali, che per il suo lavoro di protettore del patrimonio, che afferma che “le turbine eoliche rappresentano un stupro per il paesaggio paragonabile a quello dei bambini”.

A febbraio è stato costretto a dimettersi. C’è incompetenza e brutalità quando una prestigiosa scuola di cinema di Roma viene rilevata dal Ministero della Cultura o quando vengono inventate multe salatissime per dissuadere gli organizzatori di rave party sfrenati, ma il dilettantismo del potere è tale che siamo lontani dalla fine dell’“egemonia” culturale della sinistra..

Gli eccessi nascondono un disagio che non è nuovo. L’Italia ha un patrimonio tra i più ricchi d’Europa ma spende meno di altri in cultura. La maggior parte degli italiani non ha a cuore le sorti di un particolare museo o teatro e continua ad avere come unica fonte culturale la televisione. Questo è il vero bersaglio del potere: la buona vecchia televisione.

Prima di diventare ministro, Gennaro Sangiuliano ha diretto il telegiornale di Rai2 e ora immaginiamo la sua missione, portata avanti da uomini di fiducia messi in campo. Anche in questo caso gli ex capi di governo hanno fatto lo stesso, ma con maggiore rotondità.

Tra la redazione e Giorgia Meloni, l’atmosfera in Rai sembra irrespirabile. Un laboratorio, ancora una volta.